cotoletta

A Milano la cotoletta è d’autore

Con o senza osso, panata nel panko o passata nei grissini, ma anche non carnivora: cinque interpretazioni gourmet del celebre secondo piatto meneghino.

C’è quella alla bolognese o alla Petroniana, che dir si voglia, di vitella: è la numero 313 tra le ricette dell’Artusi e nel titolo specifica “al prosciutto”. A Piacenza cambia il tipo di carne, equina per l’esattezza, per la “picula ad caval”, mentre la corroborante preparazione valdostana è una specialità con prosciutto (ancora più saporita se con quello alla brace di Saint-Oyen) e una generosa fetta di Fontina. Stranamente più light risulta la versione alla palermitana che, invece di friggere, arrostisce il petto panato nel pecorino, anche se una primissima testimonianza delle “”Coste di vitello imboracciate” napoletane risale alla seconda metà del Settecento e precede persino
la classica “alla milanese”. Oggetto del desiderio dei buongustai che frequentano le insegne della tradizione nel capoluogo lombardo ‒ da provare assolutamente quella “con manico” di Osteria Brunello con maionese alla rucola, pomodorini e dressing all’origano, impanata con pancarrè essiccato e grattugiato, e cotta nel burro chiarificato ‒, la cotoletta del Nord è stata nobilitata dall’alta cucina.

In Galleria, Carlo Cracco e Luca Sacchi sono partiti da una preparazione ormai introvabile: la cotoletta sott’aceto, un esercizio di recupero delle fettine panate avanzate nelle osterie che si mettevano sott’aceto riproponendole come antipasto il giorno dopo. «Da quel ricordo abbiamo costruito “la Milano che avanza” ‒ spiega Sacchi ‒. La nostra è una fetta di pane nero imbevuto di un estratto di carne arrostita, impanata come si fa con la classica costoletta. Una volta fritta viene messa in un carpione gentile con vino bianco, aceto, miele, salvia e poca cipolla. Al momento del servizio si trancia direttamente al tavolo, terminando con una falda di cipolla rossa in agrodolce. Sembra quasi di mangiare carne».

È spessa un centimetro e mezzo, ed esce in sala con l’osso, la costoletta di Daniel Canzian, ottenuta con due grane di pangrattato, una più grossa e una più fine, da nappare in un sugo d’arrosto ricavato dagli scarti della carne stessa. Signature sin dall’apertura, la ricetta dei fratelli Lebano all’Excelsior Hotel Gallia pesa circa un chilo, viene battuta molto sottile e nella corazza che la riveste presenta tracce di grissini homemade. I coraggiosi che hanno provato la famosa Orecchia (sì, è enorme e viene consigliata per due persone) di Da Vittorio riconosceranno la firma di questa panatura ‒ i fratelli Cerea seguono la consulenza della terrazza milanese che si affaccia su piazza Duca d’Aosta ‒, croccante all’esterno e morbida all’interno. Confermiamo che vale assolutamente il viaggio.

Per un effetto più crispy (per il lessico delle sonorità rimandiamo alla lectio di Massimiliano Alajmo nella nostra ultima rubrica Focus) il panko è la svolta della cotoletta di Antonio Guida, in carta al Mandarin Garden dal 2015: anche lo chef di origine pugliese ha ceduto alla friabilità del pane stirato tipico piemontese (trovate la ricetta qui).

Maggiori informazioni

Leggi anche: Captains of crunch

Condividi

Facebook
Twitter
LinkedIn
Articoli
correlati