«CHE SAPORE HA UNA DUNA?». Tutto nasce da questa domanda, che Gianfranco Pascucci si pone quando viene chiamato a rappresentare il suo territorio a Expo2015. Alla guida del ristorante di famiglia Pascucci al Porticciolo (una stella Michelin dal 2012) – a Isola Sacra, a due passi dal porto di Fiumicino dove i pescherecci della cooperativa Pesca Romana scaricano ogni giorno triglie, merluzzi, gamberi rosa e viola, scampi e altro ancora –, lo chef autodidatta ha sempre guardato al mare come sua prima fonte d’ispirazione, non solo per la cucina. Windsurfista provetto, conosce ogni granello di sabbia del litorale laziale settentrionale che appena può perlustra alla ricerca degli spot migliori. L’amicizia fraterna con Gino Amoruso – titolare di PescaPronta, una delle maggiori aziende italiane di import-export di prodotti ittici freschi che negli anni 80 dalla Campania si è estesa a Fiumicino – gli ha permesso di affinare la sua conoscenza sulla materia prima. E lo scambio è stato evidentemente reciproco: i due hanno un repertorio infinito di aneddoti che spaziano dalle uscite di pesca alle esplorazioni degli allevamenti di ostriche in Normandia, fino alle occasioni più goliardiche.
In più, un’innata sensibilità per l’ambiente che lo circonda e verso cui sa di essere debitore riconoscente lo spinge non solo ad avere un grande rispetto in cucina nei confronti degli ingredienti (quelli ittici in particolare, di cui cerca di lavorare ogni singola parte con creatività ma senza snaturarli) ma anche degli habitat in cui vivono.
Se infatti la cucina sempre più spesso non può prescindere dal territorio in cui nasce, questo è tanto più vero – se pur con le dovute eccezioni, come raccontiamo ad esempio con Marco Ambrosino – per una cucina di mare che voglia dirsi sostenibile. Ecco perché ci siamo messi in viaggio con Gianfranco Pascucci per esplorare e documentare con un reportage fotografico i luoghi da cui arriva la materia prima che utilizza e i rapporti umani e commerciali che danno linfa alla sua cucina, e viceversa. Dalla costa romana a Orbetello, fino alla Riserva WWF di Burano, quello che segue è il racconto di due giorni in cui ci siamo letteralmente immersi nel mondo gastronomico (e non solo) dello chef.
Ed ecco il quesito posto all’inizio: cosa raccontare di Fiumicino – ormai diventato un polo gastronomico grazie al lavoro suo e di colleghi riunitisi nell’associazione Periferia Iodata – oltre l’aeroporto che tutti conoscono? La risposta arriva dall’oracolo odierno per eccellenza, Google, o meglio GoogleMaps: una macchia verde intenso che indica l’Oasi WWF di Macchiagrande, riserva naturale che in circa 7 km custodisce e preserva un habitat composito che abbraccia bosco, prato, dune e zona umida, in cui crescono erbe e bacche (come il rosmarino di duna, il nocchio marino o il ginepro coccolone), radici e alghe con cui Gianfranco sottolinea il carattere salino della sua cucina. Da qui è nato il suo rapporto sempre più stretto con il WWF e con il progetto delle Oasi – in particolare quelle marine e costiere – di cui è diventato ambassador.
Insomma, non poteva che essere lui il primo cui porre la domanda che – anche sulla scia delle denunce di inchieste e documentari come il discusso Seaspiracy di Ali Tabrizi, distribuito da Netflix – sta diventando sempre più incalzante: può esistere una pesca sostenibile? O quantomeno è possibile trovare – o meglio, mantenere – un equilibrio, per quanto labile e costantemente da rimodulare, tra esigenze nutrizionali, economie di sussistenza, mode gastronomiche e rispetto di una delle risorse più preziose del pianeta, quella rappresentata dagli Oceani?
Per Pascucci la risposta – condivisa dagli altri grandi interpreti della cucina di mare e di laguna raccontati nelle pagine a venire – è naturalmente “sì”. Ma a molte condizioni. Prima fra tutte, la consapevolezza di cosa mangiamo e delle conseguenze delle nostre scelte. «Partiamo dal fatto che siamo tutti una goccia nel mare, ma che se ognuno di noi riflette un nuovo concetto di consumo a chi gli è vicino, insieme si può spostare un’intera economia», dice Pascucci. «Dovremmo avvicinarci al mercato del pesce (che comprende anche crostacei, molluschi e gasteropodi, non solo quelli ossei o cartilaginei) senza prerogative di prodotto, ma vedendo cosa offre e acquistare di conseguenza. Già questo può cambiare l’intera filiera di mercato».
«La richiesta continua di determinati prodotti, non stagionali, influenza molto il mercato. Non possiamo pretendere di acquistare il calamaro tutto l’anno, richiedendolo alle pescherie costantemente. E quando non se ne trova nelle zone più vocate, perdiamo delle caratteristiche di gusto. Il calamaro del Mediterraneo è il più buono al mondo ma se non ci adattiamo al suo ciclo di vita dobbiamo andarlo a cercare altrove, sfruttando ogni mare possibile e perdendo la genuinità di quel prodotto. La stessa cosa avviene per i crostacei; stanno sparendo i gamberi rossi e le mazzancolle, poi scopri che per sopperire alle richieste entrano nel mercato i Black Tiger, simili alle seconde, che vengono da chilometri di disboscamento di mangrovie. Impensabile».
Così, già da anni, Gianfranco ha deciso di rendere la sua cucina anche un messaggio, per fare cultura sul rispetto e sul gusto delle nostre acque ma senza estremizzare: come nel Mare di plastica, piatto in cui lo scarto dello scarto della seppia diventa brodo e poi burro, usato per mantecare gli spaghetti al nero di seppia crudo ricoperti da un sottile strato di obulato trasparente, a richiamare l’idea del petrolio e della plastica che rendono il mare sempre meno vivibile. Contando anche sul ruolo della sala – e in particola- re della moglie Vanessa Melis – nel saper trasmettere sapori e concetti: «La cucina deve rendere buona ogni materia prima facendola apprezzare, la sala deve raccontarla. Senza fare gli “eroi”, non c’è bisogno di mandare in tavola cose estreme per fare i fighi».
La sfida sta soprattutto nel dare valore ai singoli ingredienti, in ogni loro parte. Come nel caso della rana pescatrice: «Di solito si usano i filetti, o la coda. Ma la testa è buonissima, così come il fegato. Certo a casa è dificile farlo, ma al ristorante puoi valorizzare al massimo questo pesce usandone le parti nascoste: uso il collagene per fare una salsa alla cacciatora, la trippa e il fegato per altre preparazioni ancora». E se prima il piatto era “rana pescatrice e il suo fegato” ora questa parte di scarto diventa protagonista (insieme ai fegatini di triglia) di un pâté profumato al ginepro e lentisco – servito a sé o come side dish della Triglia croccante, foie gras di pescatrice, lamponi e nocciole – messo nello stampo a forma di lisca, altro monito insieme giocoso e serio per ricordare la precarietà dell’equilibrio dei nostri mari.
Pascucci adopera solo pesce pescato nei mari locali, possibilmente delle specie meno pregiate e richieste, dal centrolofo viola e nero al muggine, o cefalo. «È un pesce straordinario e mai valorizzato, penalizzato dalla credenza che sia lo “spazzino dei mari” e dunque ricettacolo di sporcizia. Ma tutto dipende dalle acque in cui viene pescato». Lui infatti, dopo Macchiagrande, è andato alle Oasi toscane di Orbetello e di Burano dove muggini (quelli più prelibati: dal cefalo dorino, detto anche tacca d’oro o coda rossa, al mugil cephalus da cui si ottiene la bottarga) e anguille vengono pescati nel primo caso dalle barche della Cooperativa I Pescatori di Orbetello nelle acque salmastre bonificate della laguna, in parte pro- tetta dall’Oasi WWF della Riserva naturale Laguna di Orbetello di Ponente; e nel secondo caso dai pescatori del WWF in quelle da sempre incontaminate del lago costiero di Burano, anche per mantenere il delicato equilibrio ambientale di questa zona umida. In entrambi i casi si tratta di una pesca tradizionale e di una materia ittica eccellente ma no a tempi recenti poco valorizzata, utilizzata per lo più per la produzione di bottarga o (s)venduta a pochi euro a qualche visitatore di passaggio nel caso di Burano: ora il muggine ha raggiunto un valore commerciale di 12-13 euro al chilo. Lo chef di Fiumicino non solo ha deciso di utilizzarlo per i suoi piatti ma si è anche messo in gioco in prima persona per commercializzarlo al giusto valore, coinvolgendo proprio l’amico Gino Amoruso e PescaPronta.
Nel viaggio tra Fiumicino e Orbetello, dal loro confronto emergono molti elementi interessanti e la sensazione che molti dei problemi attuali si basino su paradossi ed equivoci, ma soprattutto su un circolo vizioso tra domanda (da parte di un pubblico poco attento) e offerta (da parte della grande distribuzione) che determina l’eccessiva richiesta di alcune tipologie di pescato mentre altre vengono ignorate, senza rispettare ritmi e territorialità. «Molta gente crede ancora che il pesce che acquista nelle pescherie di città sia stato preso qualche ora prima dalla barca del pescatore», spiega Amoruso. «Ma ormai non è più così da molto tempo: anche perché paradossalmente per arrivare a Milano il pesce fa prima dal Senegal che dalla Sicilia. Noi abbiamo creato la sede di Fiumicino perché gran parte del pesce arriva in aereo, da tutto il mondo, e riusciamo a smistarlo velocemente. Ma la GDO, per garantire la freschezza dei prodotti, tende a lasciare sul banco solo le specie che si vendono di più e con una rotazione più veloce, privilegiando il pesce allevato che garantisce una disponibilità costante». Anche per questo si finisce per vendere – e comprare – solo orate e spigole.
Gino sa di essere parte del problema, e cerca di esserlo anche della soluzione: PescaPronta garantisce la completa tracciabilità delle proprie barche ed ha il bollino Friend of the Sea – programma di certifica- zione per la pesca sostenibile fondato da Paolo Bray, direttore del progetto internazionale Dolphin-Safe dell’Earth Island Institute – ma studia anche soluzioni e tecnologie alternative per rendere la pesca e l’acquacoltura sempre meno impattanti. E Amoruso sposa progetti come quello delle Oasi WWF, microscopico e non remunerativo per un’azienda come la sua: «Bisogna valorizzare sempre di più queste piccole realtà e farle conoscere, sono le eccellenze del nostro territorio ed è importante che la gente le conosca e le apprezzi».
Un ruolo complementare a quello dello chef, che spiega: «pesci come quelli di Orbetello rappresentano anche un patrimonio gustativo importante e se nessuno capisce la differenza tra un’orata di qui – pescata o allevata – e una che arriva da chissà dove non ci sarà nemmeno chi è disposto a pagare di più per quel prodotto». Parole che a loro volta sottendono altri ragionamenti. In primis quello sul pesce da acquacoltura, spesso considerato un prodotto di serie B – e non utilizzato da Pascucci per il suo ristorante per precisa scelta professionale – ma ormai imprescindibile: «Oggi il pesce di allevamento è presente quotidianamente sulle nostre tavole, rappresentando circa il 60% del consumo totale, ed è destinato a salire», dice Amoruso. «È giusto allora che la gente inizi a riconoscere le differenze tra pesce allevato nazionale o estero, ad esempio, o quella tra i vari allevamenti italiani». E poi, aggiunge Pascucci, è più sostenibile un pesce allevato in maniera ottimale o uno pescato che arriva dall’altro lato del mondo? Temi sui quali c’è ancora poca attenzione – ma vi sta ponendo rimedio il giornalismo di inchiesta, con articoli come quello sull’impatto ambientale degli allevamenti di Grecia e Turchia, da cui arriva circa il 70% delle orate di allevamento vendute (a basso costo) in Italia, pubblicata sul numero di aprile de Il Salvagente.
Mentre il consumatore spesso non ha modo di valutare la qualità del pescato in vendita se non attraverso il prezzo, che il più delle volte funziona però da deterrente. «La differenza di gusto c’è, senza dubbio, ma è molto sottile e non facilmente percepibile da tutti: ciò che rende un pesce di allevamento di qualità sono soprattutto la tracciabilità e le caratteristiche nutrizionali, che a loro volta dipendono in gran parte dai mangimi utilizzati e dall’intensità di allevamento», spiega Gino. «Oggi sul pollame c’è molta attenzione, siamo abituati a leggere e cercare in etichetta frasi come “allevato a terra” o “all’aperto”. Perché non accade lo stesso anche con l’acquacoltura?», si chiede Gianfranco con un parallelo efficace.
È anche per questo che un “ecosistema” piccolo ma complesso come quello di Orbetello è basato sull’equilibrio – da ricalibrare ogni giorno, ma efficace – tra tre realtà molto diverse tra loro, ognuna con dei propri interessi e punti di vista ma anche essenziale alla sopravvivenza delle altre e dell’ambiente della laguna: da un lato la riserva e la preziosa opera di tutela che fa il WWF, dall’altro la cooperativa dei pescatori (su cui si basa gran parte dell’economia familiare locale, nonché il turismo) e Orbetello Acquacoltura, il ore all’occhiello dell’allevamento italiano; e non è un caso che le ultime due attività – complementari più che in concorrenza – siano insieme protagoniste della campagna pubblicitaria tv in onda in queste settimane, che promuove il “sistema Orbetello” come marchio di qualità.
Le somme le tira Gino Amoruso: «Sicuramente mangiamo molto più pesce rispetto a vent’anni fa. Ma non è vero che ce ne sia di meno, o non sempre perché se ne pesca troppo: per esempio nel Mediterraneo, da Fiumicino a Mazara del Vallo, le flotte di pescherecci sono in calo. Da noi quasi non esiste la grande pesca come quella atlantica. Si tratta perlopiù di piccola pesca, e negli ultimi anni è diventata sempre più attenta e controllata anche grazie agli interventi della Comunità Europea: fermi biologici più lunghi (spesso richiesti dagli stessi pescatori), reti a maglie più larghe che evitano la pesca sottomisura, per cui si rischia tantissimo». E se, ad esempio, il ripopolamento dei tonni nel nostro mare ha funzionato, un numero eccessivo rischia di mettere in pericolo le specie predate come sgombri e sardine.
Perché anche l’uomo – in quanto pescatore – nel corso dei secoli aveva trovato il suo ruolo nel labile equilibrio degli ecosistemi marini. E probabilmente ancor più della pesca (sostenibile ma soprattutto consapevole), dovremmo preoccuparci dell’inquinamento dei mari e del riscaldamento globale che ogni anno innalza le temperature delle acque e cambia ritmi e possibilità di sopravvivenza di intere specie marine. E continuare a mangiare pesce per fare la nostra parte, smettendo di chiedere letti e spigole ma imparando a considerare ogni frutto della pesca come un dono da onorare, no all’ultimo boccone.
Fiumicino, Orbetello e Burano
Pesca, Allevamento e Natura
RICETTE:
- Triglia croccante, foie gras di pescatrice, lamponi e nocciole
- Riso con anguilla sfumata
- Taglierini gamberi, pomodori e rucola
- Muggine BBQ
Nell’Oasi WWF di Burano, grazie all’accoglienza di Fabio Gianchi, Gianfranco Pascucci ha improvvisato una ricetta al barbecue utilizzando ogni parte del muggine pescato nel lago ed erbe, ori e ortaggi che crescono nella riserva. «In una tajine sul fuoco ho fatto cuocere in olio extravergine un filetto di muggine con due carcio tagliati a metà, fave fresche, ori ed erbe di macchia, sfumando con vino bianco, aggiungendo acqua a seconda della necessità, sale a piacere e cuocendo a gusto, alternando la forza della fiamma e l’uso del coperchio della tajine, per una ricetta semplice e istintiva. Ho marinato testa, ventresca e il filetto restante nel sale per 8 minuti, sciacquando e asciugando con cura. Il letto si scotta direttamente sui carboni dal- la parte della pelle: quando il grasso inizia ad affiorare si preleva, si toglie la pelle e si taglia come un carpaccio da condire con il suo “olio”, sale, pepe e limone. La ventresca – ricoperta di erbe aromatiche – si cuoce sul bbq no a quando diventa morbida e scioglievole, condendola con peperoncino e sale di affioro. La testa l’ho avvolta nelle foglie di fico e cucinata sul bbq a mo’ di cartoccio, per poi spolparla e condirla con olio infuso con foglie di fico, sale e pepe».