Fiumicino. La flotta responsabile di Pesca Romana
«Noi pescatori ci riteniamo le sentinelle del mare. Altro che distruttori! Fino a dieci anni fa, c’era chi si comportava da bandito ma adesso è tutto cambiato. Le barche dai 15 metri in su, come quelle che si usano qui per la pesca industriale, sono super controllate: dall’A.I.S. (Sistema di Identificazione Automatica che traccia il traffico marino, ndr) alla blue box collegata tramite sistema satellitare alla Guardia Costiera, che fa suonare l’allarme se si supera la linea di ripopolamento di 3 miglia dalla costa. Ma anche solo per nostro interesse, siamo i primi a volere un mare in salute». Gennaro Del Prete, 56 anni di cui 46 passati in mare e presidente della cooperativa Pesca Romana creata nel 1954 a Fiumicino da famiglie ercolanesi – con una flotta di 25 barche che usano soprattutto reti semipelagiche volanti che sfiorano il fondale senza scavare – respinge l’accusa che la pesca (quella a strascico, in particolare) sia colpevole del depauperamento dei mari e incompatibile con la sostenibilità marina. Con orgoglio racconta dell’iniziativa fishing for litter di cui la flotta fiumicinese – prima con 12 imbarcazioni, oggi con 21 – è protagonista in maniera ufficiale dal 2019 e per cui riceverà a breve dalla Regione Lazio il marchio di qualità Pesca Responsabile: oltre a pesce e crostacei, raccolgono i rifiuti di plastica che trovano in mare, scaricandoli in un apposito cassone che poi viene portato allo smaltimento. In otto mesi di lavoro, hanno messo insieme 18 tonnellate di plastica. Non solo: su richiesta delle cinque marine laziali – Fiumicino, Civitavecchia, Anzio, Terracina e Gaeta – la Regione Lazio è la prima ad adottare il fermo biologico sperimentale, dal 12 giugno al 12 luglio invece che a settembre come da calendario nazionale. «Siamo noi pescatori, in mare 365 giorni l’anno, a sapere quando è il momento della riproduzione nel nostro territorio», spiega Del Prete. Così preservano le riserve ittiche e si garantiscono una pesca più fruttuosa. Poi c’è il tema del riscaldamento delle acque: «Negli ultimi dieci anni la temperatura è salita di 4-5°C, ci stiamo tropicalizzando. Ormai si pescano pesci pagliaccio in Sicilia, mentre da noi non si trovano più le alici che sono pesci migratori e seguono le correnti fresche. Sono diventate rare per questo motivo, non perché ne peschiamo – e mangiamo – troppe. La pesca incide per il 10% sugli stock ittici, i veri colpevoli sono l’inquinamento e il cambiamento climatico».
Orbetello e Burano. Pesca, Allevamento e Natura
LA COOPERATIVA I PESCATORI DI ORBETELLO – nata nel 1946 e presieduta da Pierluigi Piro – oggi conta 45 soci, di cui l’80% sono pescatori come Sergio Amenta, detto “Topo”, che coordina anche il ristorante aperto 15 anni fa per incrementare i ricavi e smerciare il pesce (e ora c’è in programma la realizzazione di un “villaggio dei pescatori” interamente eco-compatibile, per offrire un’ospitalità immersiva nell’ambiente lagunare). I pescatori svolgono un’importante opera di monitoraggio e manutenzione dei bassi fondali della laguna: oltre alle alghe che proliferano a causa dei cambiamenti climatici, si trovano anche a fronteggiare eventi catastrofici come l’alluvione del 2012 (in cui la decisione di aprire le barriere per evitare l’allagamento costò la perdita di 3mila quintali di pesce) e l’anossia del 2015, dovuta al caldo anomalo, che causò la morte di quasi altrettanti pesci. Qui – con barchini di legno, martavelli (nasse selettive), tramagli o al “lavoriero”, con impianti fissi lungo i canali di collegamento con il mare – si pescano spigole, orate, calcinelli, mazzancolle, femminelle ma soprattutto cefali e anguille, cui è dedicato il laboratorio di trasformazione nato nel 1994: dai primi si ottengono la pregiata bottarga presidio Slow Food, le cui origini risalgono almeno al 1414 (come attestano alcuni scritti comunali), e le carni affumicate. Si deve a una ricetta spagnola del 600 la tradizione dell’Anguilla sfumata: affumicata e poi sfumata, cioè condita con una salsa a base di peperone (pimento), si mangia appena scottata sulla pelle o in preparazioni più elaborate, come lo strepitoso riso con brodo d’anguilla e olio alle erbe ideato da Gianfranco Pascucci.
LE OASI WWF in zona – entrambe Riserve Naturali gestite dall’organizzazione – sono due: quella della Laguna di Orbetello di Ponente e del bosco di Patanella, fondata nel 1998, e quella del Lago di Burano a Capalbio, diretta da Fabio Gianchi. Prima Oasi del progetto, è nata nel 1967 per la salvaguardia dell’avi-fauna e diventata riserva nel 1980 acquisendo la gestione della ex riserva di caccia di proprietà della SACRA Spa, che possiede molti terreni tra Orbetello e Capalbio. Qui la pesca nel lago (in realtà, uno stagno costiero salmastro) è parte integrante dell’equilibrio complessivo di un ambiente incantevole e delicato, popolato da ben 274 specie di uccelli tra i quali aironi, fenicotteri e falchi della palude. Oltre ai cefali, si pescano anguille adulte di cui una parte viene reintrodotta in mare per la riproduzione. Il muggine, in particolare, è il primo caso in cui una specie animale presente in un’Oasi WWF allo stato selvatico è commercializzata: non un controsenso ma un modo intelligente per dare il giusto valore a un prodotto la cui pesca è funzionale all’habitat. L’Oasi di Orbetello è invece parte del progetto Terre dell’Oasi che attraverso la creazione di aziende agricole biologiche (qui si coltivano grano e farro trasformati in pasta e farine nell’Oasi abruzzese del lago di Penne) dimostra come ci possa essere compatibilità tra ambiente e risorse economiche. «L’idea alla base – spiega Antonio Canu, Presidente di WWF Oasi – è che un’attività produttiva di tipo tradizionale sia utile alla conservazione della natura e della biodiversità, oltre che a dare un riscontro economico. La collaborazione con Gianfranco ci aiuta a essere sempre più vicini al territorio valorizzando prodotti a volte dimenticati, come appunto il cefalo di Burano ma anche le erbe ed essenze di Macchiagrande. Gli chef possono essere ambasciatori dell’importanza di una natura protetta e trovano un valore aggiunto in un “orto naturale” da cui possono attingere in maniera sostenibile».
L’ALLEVAMENTO ITTICO DI ORBETELLO ACQUACOLTURA ad Ansedonia è stato creato nel 1976 da COSA Società Agricola Arl. Un’attività che qui risale già all’Antica Roma, grazie alle falde sotterranee la cui acqua – pura, salata e a una temperatura costante tra 20-25°C – alimenta tutt’oggi le vasche per la crescita di orate e spigole (in passato si allevavano anche marmore, saraghi, sogliole e anguille, il cui consumo, anche natalizio, è crollato), dall’avannotteria alle vasche d’ingrasso dove i pesci crescono no a 18-36 mesi. Dotato di diverse certificazioni tra cui l’ISO 14001:2015 per il Sistema di Gestione Ambientale, l’impianto rappresenta un modello di allevamento sostenibile: alimentato da energia idroelettrica, utilizza 70 vasche sottopopolate per evitare eccessivo stress ai pesci e mangimi a base di farine provenienti dalla lavorazione di altri prodotti ittici (come il tonno in scatola, i cui scarti di lavorazione diventano così risorsa), olio di pesce ad alto valore nutritivo, farine vegetali senza OGM e micro-alghe, che garantiscono al pesce l’introito di Omega3, riuscendo a ottenere un prodotto simile a quello “selvaggio”. Biologo marino, il presidente Marco Gilmozzi è consapevole della necessità di coniugare esigenze umane, commerciali e ambientali: «La FAO è chiara: nel mondo 2/3 delle aree marine sono pienamente sfruttati e noi mangiamo sempre più pesce, un alimento prezioso e non un vezzo. Ogni anno la data del Fish Dependence Day europeo che marca la fine simbolica delle scorte ittiche nostrane si anticipa, e se oggi nel mondo si consuma oltre il 50% di pesce di alleva- mento nel 2050 si arriverà all’85%». Orbetello – che comprende anche altri quattro allevamenti, tutti riuniti nella COOP.A.M. per la commercializzazione – è una nicchia: «In Italia si consumano circa 100mila tonnellate di spigole e orate, di cui oltre l’80% importate. Gli allevamenti nostrani ne producono in totale 18mila, a Orbetello ne facciamo il 10-12%, vale a dire il 2% di quello consumato» (dunque circa 2000 tonnellate, di cui la metà nello stabilimento COSA). Un prodotto di qualità che risponde all’idea che di pesce – come avviene per la carne – ne dovremmo mangiare forse meno, ma buono.