Testo estratto dal numero speciale Italianissimo: 20 (+1) racconti d’autore per 20 regioni
Dopo quattordici anni passati a Milano, l’impatto con Torino è stato una cosa nuova. Sono cresciuto in provincia, non avevo mai vissuto in modo così pieno la città. Torino è una città riflessiva, che ti studia. A volte troppo. Può consumarti un po’, non certo per i ritmi frenetici che non le appartengono, e anzi proprio per il motivo contrario: ha bisogno di tempo, prima di riconoscere il tuo valore. Prima di dirti che sei bravo. Torino si porta dietro una storia fatta di persone che lavorano molto, con precisione, e dedizione. In passato, la città ha avuto due forti punti di riferimento: la Casa Reale e la Fiat. E le persone hanno fatto quadrato, proprio come, ironia della sorte, racconta l’assetto urbanistico impostato dai Romani e ripreso nella progettazione sabauda. Anche in pianta, Torino è una città quadrata. Ma oltre la diffidenza iniziale, qui si vive di operosità, collaborazione e progettualità.
Spazi e servizi sono a misura d’uomo e quella lentezza che in passato è sembrata fuori moda e controproducente oggi si rivela una risorsa da custodire con cura, e coltivare. Vivere nella storia significa anche sopravvivere alle mode, e a Torino questo succede un po’ di più. Io vivo tutto ciò da un palcoscenico ammirato e oneroso com’è quello del Cambio, misurandomi con un luogo che non è semplicemente un ristorante, ma un “museo” privato con forte vocazione pubblica: in città tutti ne sentono l’appartenenza, e chiunque si trovi a frequentarlo, anche solo per il tempo di un pranzo, sente di essere diventato parte di una storia che sopravvive al passare di secoli, costumi, abitudini. Eppure la migliore qualità del Cambio è sempre stata quella di voler fare avanguardia, e questo è lampante per un cuoco come me che decida di studiare i menu del passato.
È facile cadere nell’errore di considerarlo un posto della tradizione, per i 260 anni di storia che ha sulle spalle; ma è sempre stato un avamposto innovativo in città, potendosi permettere di proporre, prima degli altri, cose impensabili altrove (non solo in cucina: non a caso, è perfettamente riuscita l’operazione di far convivere i velluti rossi dell’epoca di Cavour con le lastre specchianti che animano la sala plasmata da Michelangelo Pistoletto, ndr). Prestissimo ha moltiplicato la sua brigata di sala e cucina per offrire un servizio esclusivo, tanti sono i prodotti pregiati e le tecniche – penso alle salse francesi – che hanno trovato diffusione a Torino proprio a partire dal lavoro svolto al ristorante. E oggi continuiamo su questa strada, come dimostra, per esempio, l’ultimo progetto che ha ripensato il bar Cavour in forma di giardino segreto, in piazza Carignano, disegnando uno spazio inedito nel centro della città.
Bisogna essere intelligenti nel confrontarsi con un’istituzione del genere, progettare il cambiamento con un grande senso di rispetto. Abbiamo una storicità con cui dialogare, che dev’essere d’ispirazione per chi ci lavora, per gli ospiti, per la città. Perché il Cambio è un luogo di cultura, e in quanto tale può essere di aiuto e sostegno per la comunità.
Ma il mio vissuto fa sì che a una città come Torino io possa trasferire anche gli insegnamenti degli anni dell’adolescenza trascorsi in campagna. Moderare la velocità e la percezione fugace delle cose, per godere del conforto di una ritrovata semplicità è l’equilibrio cui vuole tendere la mia cucina, che all’ombra della Mole trova agio nella varietà di prodotti del mercato all’aperto più grande d’Europa, a Porta Palazzo. Quest’idea si concretizza in un piatto come le Tagliatelle di patate, che esaltano il gusto delle patate ratte, dette anche “del bur” o “bec”, varietà antica di origine francese dalla caratteristica forma allungata, polpa molto compatta e un sapore dolce che ricorda la castagna. Vengono schiacciate e lavorate come si fa con l’impasto per gli gnocchi, tagliate, cotte in acqua bollente e successivamente mantecate al burro. Questo le rende cremosissime, tanto da sciogliersi in bocca.
Gli gnocchi mi ricordano le vacanze estive passate con la mia nonna materna: l’aiutavo, tra un compito e l’altro, a impastare e a dar loro la forma, rigorosamente con la forchetta. Da sempre ricetta popolare, sono un piatto di “conforto” nato per sfamare persone dedite alla fatica del lavoro dei campi. Io ho pensato di ingentilirne la forma, prendendo spunto dalle classiche tagliatelle di pasta fresca, accompagnate con tartufo bianco in autunno inoltrato, cumino tostato macinato e centrifuga di buccia di limone per la versione primaverile/estiva.
È il senso della mia cucina, che deriva anche dalle mie origini: partire da un prodotto, dalla sua storia, dalla tradizione gastronomica, per compiere poi un’evoluzione nella forma, nel concetto di “classico apparente”.
La ricerca dell’avanguardia nella semplicità o della semplicità nell’avanguardia.