Nel 1619, verso la fine di agosto, circa un anno prima dell’arrivo della nave Mayflower (quella che trasportò i padri pellegrini, ndr), una ventina di africani giunti a bordo della White Lion veniva venduta nella colonia di Jamestown, in Virginia; il loro sbarco veniva regolarmente registrato da John Rolfe (sì, quello di Pocahontas), il cancelliere della colonia. Non erano i primi africani ad arrivare in quelli che sarebbero diventati, in seguito, gli Stati Uniti d’America, ma proprio loro (e le centinaia di migliaia che sarebbero seguiti) avevano portato con sé, nelle loro mani e nella loro memoria, tecniche e tradizioni che avrebbero trasformato la cucina di un intero paese. La loro posizione e quella dei loro discendenti, in fondo alla scala gerarchica, li ha posti al centro del processo concreto di formazione della nascente nazione — e ciò ha permesso che, nei quattro secoli seguenti, la loro influenza su cucina, agricoltura, allevamento, fermentazione e distillazione abbia dato luogo a un’eredità culinaria che è stata troppo spesso sottovalutata.
Determinare una precisa cronologia della manodopera non è facile, anche se i primi lavori manuali sono stati, con molta probabilità, quelli agricoli e quelli domestici, eseguiti dai nuovi arrivati a fianco dei servi a contratto dalla pelle bianca. L’angolano Antonio, appartenente al già menzionato gruppo di africani, lavorò per un periodo in condizioni di schiavitù, per poi diventare agricoltore e cospicuo possidente terriero. Ed è proprio grazie al contributo di Antonio e di altri come lui che il lavoro nei campi si evolvé, ad esempio nella scelta delle colture su cui puntare, grazie alle conoscenze tradizionali delle popolazioni africane e nativo-americane. I loro metodi di coltivazione producevano un raccolto circa cinque volte superiore rispetto a quello che si otteneva con il metodo comunemente utilizzato in Europa all’epoca. Le pratiche agricole del continente africano prevalsero in molte regioni delle colonie, ma da nessuna parte fecero registrare i risultati che ebbe la coltivazione del riso nella cosiddetta “Lowcountry” (la zona costiera, ndr) della South Carolina. Sin dall’inizio, la competenza degli schiavi africani provenienti dalle regioni risicole dell’Africa Occidentale — l’antica Senegambia, Liberia e Sierra Leone — permise alle colonie della Carolina di arricchirsi immensamente. La stessa, celebre varietà di riso “Carolina Gold” potrebbe essere, infatti, originaria del Madagascar. Anche altre idee, come la rotazione delle colture e nuovi sistemi di semina, furono diffuse nel nuovo continente. Coltivazioni africane come okra, anguria, fagioli occhio nero, sorgo, caffé, noci di cola e sesamo attraversarono l’Atlantico e sarebbero diventate caposaldi della dieta americana, specialmente negli stati del Sud. Lungo le rotte del commercio di schiavi africani arrivarono anche altre colture, originarie di altre parti del pianeta, come per esempio le arachidi.
Studi recenti sembrano indicare che non solo specie vegetali, ma anche animali siano state introdotte dall’Africa in America. La razza bovina Longhorn, un’icona del Texas, a lungo tempo ritenuta un ibrido tra la razza sudamericana Criollo e razze europee, presenta tracce nel suo DNA di razza Fulani, originaria dell’Africa Occidentale, e i discendenti dei pastori Fulani inizialmente ridotti in schiavitù furono tra i primi cowboy degli Stati Uniti. Si può affermare con certezza che, alla fine della Guerra Civile, almeno un quarto dei cowboy fosse di pelle scura. Agricoltura e allevamento non sono stati gli unici ambiti profondamente influenzati dagli africani e dai loro discendenti; il gusto della neonata nazione ha beneficiato di un imprinting africano anche attraverso le innumerevoli schiere di cuochi afroamericani che hanno faticato nelle sue cucine e nei suoi ristoranti. Quando i Padri Fondatori si sedevano a tavola, consumavano pasti preparati da cuochi Neri e serviti da mani dalla pelle scura. Lo chef di George Washington, Hercules, quello di Jefferson, James Hemings, e altri cuochi sconosciuti dei firmatari della Dichiarazione d’Indipendenza hanno elevato la competenza culinaria degli afroamericani ai massimi livelli. Nel libro “Star-spangled manners”, Judith Martin, meglio conosciuta come “Miss Manners”, arriva addirittura ad affermare che l’autentico spirito della tanto decantata ospitalit. “sudista” affondi le sue radici più nella cultura africana che in quella europea.
I confini della reale influenza degli afroamericani sull’industria delle bevande sono ancora in buona parte da scoprire, ma vi è la certezza che nei periodi rispettivamente coloniale e federale un gran numero di loro lavorasse nelle taverne non solo in qualità di camerieri, ma anche come direttori della produzione di birra, com’è il caso, per esempio, di Peter Hemings, il fratello di James, che ricopriva questo ruolo a Monticello. Nathan “Nearest” Green, che era nato in schiavitù, è stato il distillatore che ha insegnato quest’arte a Jack Daniel. Prima del proibizionismo, la maggior parte dei barman di Washington, D.C., era afroamericana, al punto da fondare il Black Mixologists Club, un’associazione di categoria. Nel 1917 Tom Bullock, un barman di St. Louis, scrisse “The ideal bartender”, il primo libro sull’argomento a cura di un afroamericano — e quello che, un secolo più tardi, sarebbe diventato un punto di riferimento per il movimento dei craft cocktail.
Anche il cibo offriva cospicue opportunità a chi possedeva uno spirito intraprendente. Alcune donne di Gordonsville, Virginia, colsero una potenziale occasione di commercio nei passeggeri dei treni che transitavano per la loro cittadina: si misero quindi a vendere pollo fritto e prodotti da forno agli affamati viaggiatori attraverso i finestrini. Nella Filadelfia del diciannovesimo secolo Robert Bogle aveva messo insieme una società di catering a conduzione afroamericana, che lavorava per le famiglie benestanti della città. Per le strade di tutto il paese, venditori ambulanti afroamericani offrivano una scelta infinita di prelibatezze, dalle calas (frittelle di riso) di New Orleans ai piedini di maiale di Harlem. I ristoranti afroamericani piccoli e grandi hanno nutrito generazioni di americani per secoli: dal primo locale di Providence, che serviva ostriche e birra, aperto da Emmanuel Bernoon nel 1736, a moderni ristoranti come JuneBaby, Salare e Lucinda Grain Bar di Edouardo Jordan (a Seattle), e The Grey, di Mashama Bailey (a Savannah), premiati ai James Beard Awards. Gli afroamericani hanno lavorato in ogni campo dell’industria alimentare: coltivando, vendendo, servendo, creando e rendendo disponibili le bevande per accompagnare il cibo. È una storia lunga 400 anni che solo ora, nel XXI secolo, stiamo pienamente comprendendo, approfondendo e raccontando. Era ora.
Jessica B. Harris, professore emerito al Queens College, è specializzata in storia culinaria, consulente e autrice di libri relativi alla cucina africana e alla sua diffusione nel mondo.
foto di Oriana Koren
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