Testo estratto dal numero speciale Italianissimo: 20 (+1) racconti d’autore per 20 regioni
Vivo in un’isola nell‘isola, in un avamposto di Sardegna di fronte Barcellona. Alghero è città catalana, l’Alguer per noi indigeni e Salighesa per i sardi. Noi affondiamo le nostre radici in mura fortificate su un mare che accoglie tramonti che fanno accapponare la pelle. Sì, il tramonto dietro Capo Caccia apre il cuore. Tutto si tinge di zafferano, arancione, rosso, carminio sino ad arrivare al viola e ogni volta pare più bello, più struggente e più avvolgente della sera prima.
Alghero fa isola a sé, nella lingua, nell’architettura, nelle tradizioni e nella sua cucina. Io adoro la cucina algherese dove la mescolanza è la parola d’ordine. Mia moglie Patrizia, nonostante le origini galluresi, cucina benissimo tutte le pietanze tipiche. È una cucina variegata, caratterizzata dall’insularità, dalla cultura agropastorale e da innesti e contaminazioni dovuti a contatti e continui scambi fra diverse culture mediterranee oltre che da una forte influenza catalana.
Gli antipasti sono quasi tutti di mare: la capunara, piatto a base di crostacei, acciughe, uova sode e frutti di mare, o la bottarga, pasta di uova di muggine spalmata su crostini di pane abbrustolito o tagliato a tocchetti su uno strato di sedano o, meglio, di carciofi crudi. Tra i primi piatti sono speciali le linguine al Bogamarì, preparate semplicemente con la polpa dei ricci freschi; anche se il massimo è la polpa mangiata con il cucchiaino sugli scogli, magari bevendo un calice di Torbato di Sella&Mosca. Una rivisitazione di un primo piatto tipico della cultura gastronomica spagnola è la paella algherese dove al posto del riso troviamo la fregola, tipica pasta sarda. Tra le specialità culinarie di Alghero forse la più rinomata è l’aragosta alla catalana, semplicemente bollita e servita con sale, pepe, olio d’oliva e la salsa ricavata dalla testa, condita con cipolla e pomodori tagliati a fette.
Ma la mia vera passione sono i dolci tipici algheresi, ne mangerei sino a stare male. Le mie madeleines sono in ordine di preferenza: la torta di manjar branc, las tabacheras e lus ous de buciaca.
Lu manjar branc è una crema tipica delle corti europee, tramandata secoli fa ad Alghero e a Maiorca. Arrivata intorno al 1300 con l’occupazione della città da parte dei Catalani, è ormai il nostro dolce tipico. Si prepara con latte, zucchero, amido e scorza di limone. Pare facile ma è un’alchimia di equilibrio, dosi e manualità e solo pochi la sanno realizzare alla perfezione. Poi, io sono un grande intenditore e non transigo su densità, sapore e profumo. A casa mia era il dolce di tutte le feste comandate. Da piccolo aspettavo con ansia che mia madre si distraesse per prendere di nascosto la scorza di limone inzuppata di crema e mangiarla caldissima, scottante, con avidità e goduria pura. Ancora oggi, per me, mangiare la torta rappresenta una gioia immensa, fatta di infrazione e di bontà.
Le tabacheras sono realizzate con gli stessi elementi ma sono piccoli ravioli: tu mordi la pasta croccante e vieni sovrastato dal sapore della crema che si scioglie in bocca, possibilmente tanto calda da bruciare la lingua. Pura delizia per i sensi! E gli ous de buciaca? Il profumo dell’anice invade le case. Le nonne e le mamme lavoravano con cura la pasta all’anice nel ribell (un grande piatto concavo) e con essa formavano pani, uova e cavallucci e li sistemavano ben acucujaz (assestati) dentro i cesti, separati da candide tovaglie di lino e tenuti al caldo da coperte. In quei cesti avveniva il miracolo che ha lasciato molte tracce nel mio immaginario.
Poi ci sono le erbe mediterranee. Nella mia casa di campagna, proprio accanto alla cucina, a portata di mano, le ho tutte. Una foglia di alloro e il petto di pollo acquista nuovo sapore e nuovo colore. Un letto di elicriso, la famosa manzaneglia di Capocaccia, per le aragoste. Basilico, menta, alloro, timo, rosmarino sono i particolari essenziali, i punti, le virgole che danno senso e significato alla nostra cucina.
Riguardo alla cucina tipica sarda invece – quella cosiddetta “vera e autentica”, quella del cuore della Sardegna, del Logudoro, della Barbagia, conosciuta ed esportata in tutto il mondo – devo dire che per me è sconosciuta quasi quanto per un giapponese. Tempo fa io e Patrizia siamo stati invitati ad Orani per una grande occasione. Io c’ero già stato: è un paesino di narratori, artisti, sarti, ciabattini e minatori al centro della Sardegna, solo 3mila anime ma molto, molto intense. Lo conoscevo grazie a Costantino Nivola, artista che visse prima a Torino poi negli Hamptons, nello stato di NewYork, ma da sempre così affezionato e legato alla sua Orani da incaricare una parente di scrivergli ogni giorno una lettera su quello che succedeva in paese:
Sono tornato a Orani, annunziato dalle tue comari
“ricco e potente è”
hanno detto,
“meschino”, hai risposto,
“costretto a vivere in terre straniere”.
Come scriveva nella sua poesia “Anch’io”. E poi conoscevo Orani perché ho letto con voracità tutti i libri di quel cantastorie che è Salvatore Niffoi. Ma soprattutto non la dimenticherò mai per il meraviglioso ricordo di un pranzo con pochi intimi (eravamo circa in mille persone). Era una giornata di festa, caldissima e infinita, di fine luglio. Nella mattina assolata, c’era stata l’affollata cerimonia ufficiale con sindaco in fascia tricolore: inaugurazione della nuova sartoria del grande sarto Paolo Modolo, colui che ha riportato l’abito di velluto di antica tradizione alla quotidianità attuale. E poi in gita in collina, al santuario di Monte Gonare tra boschi e acque ribelli.
Sotto l’ombra generosa di alberi secolari c’erano una decina di pentoloni enormi che ribollivano assecondando il grande mestolo che, grazie alla guida di cuochi sapienti, rimescolava ingredienti a me sconosciuti ma, di sicuro, di solido impatto a sentire il profumo che si levava intenso e ipnotizzante insieme ai fumi del bollore. L’immagine, ho pensato, era la stessa che apparve a Macbeth in visita alle streghe – anche se qui il cielo non era terso e scuro, interrotto da tuoni e lampi, ma celeste, alto, luminoso e chiarissimo. Si trattava della cottura della pecora in cappotto, piatto mitico della Sardegna barbaricina e ogliastrina e, purtroppo, ignoto a noi, sardi marini. Patrizia, da vegetariana, ha rifiutato la carne ma le patate e la verdura intrise del brodo avevano lo stesso sapore atavico, acuto, viscerale e profondo. Il tutto innaffiato di scuro cannonau di Jerzu.
È stata un’esperienza indimenticabile! Una giornata ad Orani, come non consigliarla a cuori forti e ad avventurieri impavidi?
Nato ad Alghero, Antonio Marras è uno stilista, costumista e artista profondamente influenzato dalla sua terra d’origine, che ne orienta estetica e stile, come pure la commistione tra arti diverse. Nel 2018, “veste” anche le etichette dei vini sardi di Sella&Mosca.
foto di Daniela Zedda