Tra i cuochi-forager nostrani un posto di riguardo va ad Alessandro Miocchi, alla guida insieme a Giuseppe Lo Iudice di Retrobottega (ma anche RetroPasta, RetroVino e RetroCaffè) a Roma. Da almeno un paio d’anni perlustra campagne, boschi e prati sperduti e incontaminati di Lazio e Abruzzo (perlopiù) alla ricerca di semi, erbe, radici, bacche e germogli che per i più non rientrerebbero nell’ambito del commestibile. Lui invece ne fa conserve, salse, polveri e altro che vanno ad arricchire il menu del ristorante. Anzi, i menu: «Da un anno a questa parte abbiamo deciso di proporre da Retrobottega due percorsi degustazione, uno “classico” e uno vegetale» spiega lo chef. «Avendo messo in piedi altre proposte, adatte a tasche ed esigenze diverse ma tutte improntate a un approccio simile ma semplificato e con uguale qualità dei prodotti, al ristorante ci sembrava arrivato il momento di marcare un po’ di più sulle due nostre strade preferite: da un lato la carne, pur senza tralasciare il pesce, e dall’altro gli ortaggi».
Così se nel primo – sempre in base alla stagione, a quello che arriva da orti e raccolti e alle improvvisazioni estemporanee dettate appunto dalle forniture, soprattutto vegetali – figurano piatti come Cuori e Ravanelli stagionati o la Peeehcora, Foglie e Agrumi, il secondo inizia con l’insalata di ceci e l’ipnotico ed essenziale Carpaccio di Pesca e Barbabietola impreziosito da “capperi” selvatici (boccioli raccolti prima che spunti il fiore) e gel di carpione. Un piatto che gioca su toni acidi e amari tipici dell’aperitivo per aprire la strada a portate come l’Iper Carota, i “succulenti” Peperoni alla brace, il Risotto Cascara e Aceto (che porta in cucina l’anima di RetroCaffè utilizzando in mantecazione un burro aromatizzato dalle bucce del frutto del caffè, dalle peculiari note fruttate e tostate), la Pasta Fredda (spaghetti con salsa al pomodoro e fragole fermentate e abbondante Parmigiano, che scardina tanto il pregiudizio gastronomico contro i primi freddi quanto le rigide categorie dolce-salato) e l’ormai signature Crepinette di foglie.
È quest’ultimo, probabilmente, il piatto che per primo accese l’attenzione, almeno da parte di chi sedeva ai tavoli del ristorante di via della Stelletta, sulle potenzialità delle verdure e sulla vocazione di Miocchi nel trattarle in maniera non banale, rendendole protagoniste: un involucro stratificato di erbe di campo selvatiche e verdure in foglia, con un cuore fondente di frutta e verdura di stagione che richiama succulenza e carnosità, in origine avvolto dalla rete di maiale come nella versione classica della preparazione e ora invece interamente vegetale. L’interesse di Miocchi a questo mondo nasce però molto prima, a cominciare dal passaggio in Piemonte che lo ha visto attingere all’orto personale di Enrico Crippa: «In quel caso, avendo un orto suo, era tutto più semplice (almeno apparentemente, visto il lavoro che c’è dietro). Quando sono tornato a Roma, al Pagliaccio di Anthony Genovese, ho visto che la sua era una vera e propria “guerriglia urbana” con i fornitori e la logistica per riuscire ad avere approvvigionamenti di un certo tipo. Allora mi sono chiesto: perché in città deve essere per forza così difficile, è davvero obbligatorio sentirsi così “lontani” dalle pratiche agricole lavorando in centro? Da lì è partita la sfida». Che ha portato alle alzatacce per il foraging (che, soprattutto grazie alle conserve, garantisce una dispensa ricca di sfumature green per tutto l’anno) ma anche a un rapporto diverso con i fornitori, e con i prodotti.
«Ho cambiato il mio punto di vista da cuoco. Non è più: “Voglio usare il cavolfiore, me ne serve uno bianco e tondo”. Ma: “Cos’ha piantato il contadino? Cos’ha di figo in campo? Cosa raccoglierà la settimana prossima?”. Certo, vuol dire instaurare rapporti di fiducia e remunerare in maniera corretta il loro lavoro, direttamente con le realtà più vicine o tramite “piattaforme” come quella di Guido Botticelli, che raccoglie in esclusiva alcuni micro-produttori eccellenti dal Veneto al Gargano. Bisogna aggirare l’ostacolo della logistica, ma anche la distanza non fisica tra chi fatica nel campo e chi ha le rogne cittadine. Così, anche il menu del ristorante dipende dal rapporto con loro, non ha più una durata precisa. E ragioniamo per macrofamiglie più che per prodotti: so che nella stagione calda ci sono i peperoni ma si avvicendano le varietà con diverse sfumature di sapore e consistenza. E magari capita di variare un piatto “in corsa”: per esempio avevamo in menu Asparagi e bottarga ma quando ho trovato al mercato delle zolle d’aglio buonissime, che ne ricordano la forma ma hanno un sapore completamente diverso, è diventato Talli e bottarga, con aglio e mandorle. Il nostro è un costante work in progress, dall’evoluzione naturale, che per noi è un lusso».
E se ai tavoli di Retrobottega già s’intersecano – com’è sempre accaduto, stimolati dalle proposte e dall’interazione con la brigata – sguardi e commenti tra chi sceglie il menu “verde” e quello “tradizionale” (percepito così soprattutto dagli italiani, sottolinea Miocchi), chissà che in futuro le due “vie” non s’incrocino.