È una storia legata a doppio filo alla città di Napoli, quella della famiglia Piccirillo. Fu la nonna dell’attuale titolare Enzo – Anna Manfredi, soprannominata appunto la Masardona – a iniziare negli anni 50 a friggere le pizze la domenica mattina fuori alla porta di casa, in via Giulio Cesare Capaccio, come facevano all’epoca le donne partenopee per integrare i guadagni della famiglia.
Un fornello improvvisato, una pentola e quel poco che avanzava dalla spesa settimanale: ricotta, cicoli di maiale, pepe a dare sapore. Tanto bastava per proporre ai lavoranti e i banchisti del vicino mercato di Porta Nolana – che venivano da lei a rifocillarsi fin dalle prime ore del mattino, dopo l’arrivo del pesce: un’abitudine che dura fino a oggi – qualcosa di economico ma buonissimo che riempisse la pancia. Un’usanza diffusa in tutto il centro storico e in particolare nella via poco distante dalla Stazione Centrale di Napoli, tanto che le donne della strada si davano il turno e ognuna aveva il “suo” giorno. Alla Masardona spettava appunto la domenica, oltre alla tradizionale frittura di Capodanno di cui conservano ancora le fotografie.
Anna Manfredi trasmise la sua arte, umile ma preziosa, alla nuora Carmela Pintauro, che portava in dote anche la propria tradizione di famiglia e che divenne ben presto famosa – oltre che per le pizze fritte – anche per il tortano, i taralli e i buonissimi roccocò, tipici dolci di Natale napoletani che ancora oggi vengono sfornati dalla famiglia Piccirillo per le feste, richiestissimi e da ordinare in anticipo. «Nel quartiere la chiamavano tutti Nonna Pizza, e a lei è dedicata una delle pizze del nostro menu: la montanara con il ragù, quello “vero”. Mentre alla Zia Tatina è dedicata quella con le scarole cucinate secondo tradizione, con uvetta, pinoli, olive e peperoncino» racconta Cristiano Piccirillo, che insieme al padre Enzo e al fratello Salvatore oggi porta avanti la tradizione di famiglia lavorando in squadra, ma ognuno alla guida di un suo locale.
Cristiano infatti nel 2020 ha portato a Roma, in un bel locale dove hanno deciso di proporre per la prima volta anche con la pizza al forno (ottima), il nome e la tradizione di famiglia facendo la gioia dei tanti napoletani nostalgici in città, ma anche di romani e turisti, mentre Salvatore guida l’indirizzo di Piazza Vittoria, aperto nel 2019 nel centro chic della città partenopea. Enzo invece presidia ogni giorno la “casa madre”, vale a dire il locale – che adesso ha anche una sala con i tavoli per sedersi a consumare con la dovuta calma, ma senza troppi fronzoli: anche perché la pizza fritta va goduta mangiandola con le mani, magari avvolta nella carta paglia più che nel piatto – aperto quando ha preso il timone dell’attività di famiglia interrompendo la tradizionale linea matriarcale di questa specialità.
«Quando mio nonno morì, giovanissimo – prosegue Cristiano – le sue sorelle erano troppo giovani, così toccò a lui affiancare la madre e imparare da lei l’arte della pizza fritta. Ed è stato lui a dare la svolta all’attività, passando da una bancarella a un vero e proprio locale; uno dei pochissimi, fino a qualche anno fa, dove si facevano esclusivamente pizze fritte (oltre che crocché e altri sfizi) mentre qualcuno la proponeva al tavolo, accanto a quelle tonde al forno». E infatti porta il suo nome il cavallo di battaglia del menu, la Don Vincenzo, che ricalca l’archetipo del “ripieno” napoletano con ricotta, cicoli, provola, pepe e basilico. Un must da provare, in uno qualsiasi dei tre locali firmati la Masardona, nella versione “big” con il marchio di fabbrica dei due dischi di pasta farciti, sovrapposti e sigillati con una manualità artigiana da brevetto, o in quella del battilocchio – che è un marchio registrato, e rimanda al soprannome che il popolo napoletano affibbiava ai soldati americani “lunghi e magri, ma non molto svegli” – con un solo disco ripiegato su se stesso a mezzaluna. «La ricetta è sempre quella, ormai quasi centenaria, ma cambia la ricerca sul prodotto: che si tratti di pomodoro, latticini o salumi, cerchiamo sempre di trovare il meglio ma senza stravolgere nulla».
La forza della Masardona è stata proprio quella di rimanere fedele alle origini, e alla tradizione unica di un prodotto a lungo considerato umile e “unto” ma buonissimo, pur senza smettere di guardare avanti. Salvatore e Cristiano sono entrambi laureati – il primo in Veterinaria, con la prospettiva di un dottorato e della carriera accademica, il secondo in Lingue e Letterature straniere perché, dice, «poter raccontare il prima persona il proprio prodotto e la propria storia anche agli ospiti stranieri è un’altra cosa» – e hanno fatto esperienze diverse, anche all’estero, ma tutti e due hanno deciso di seguire le orme paterne, pur trovando ognuno la propria strada e il proprio ruolo: «Siamo molto diversi l’uno dall’altro – spiega Salvatore – e questo ci dà una marcia in più; abbiamo la possibilità di vedere le cose da punti di vista diversi, e confrontandoci riusciamo quasi sempre a individuare l’idea migliore. Certo ci sono anche contrasti, abbiamo tre modi diversi di lavorare ma puntiamo allo stesso risultato: un prodotto di qualità con standard altissimo che rimangono costanti nei diversi locali, una cosa che clienti ci riconoscono».
«Il filo conduttore che ci accomuna è la presenza costante in pizzeria, a curare ogni dettaglio, anche perché un conto è fare 50 pizze e un conto anche 500 al giorno», dice Cristiano. «Le nostre pizzerie non saranno mai un franchising ma un’attività di famiglia, per quanto ci sia l’idea di crescere ancora, aprendo nuovi locali e magari inserendo delle novità in menu». E infatti è già in pista dietro al banco anche il cugino Antonio Pintauro, 20 anni e Dna che non tradisce.
Lo conferma anche il padre: «Ciò di più prezioso che mi ha trasmesso mia madre, e che io spero e penso di aver passato ai miei figli, è il rispetto per il prodotto e per ogni aspetto del nostro lavoro. Ricordo bene la cura con cui tagliava i cicoli con la seghetta da cucina, schiacciava la ricotta o puliva i pomodori freschi; erano prodotti semplici, all’epoca faceva solo la pizza classica con quel ripieno, ma lei aveva una maniacalità rispettosa verso di essi. Così oggi, ad esempio, ogni sera dopo la chiusura io mi fermo in pizzeria a mettere tutto a posto, perché lavorare con ordine è la prima cosa. Io ho raccolto ciò che avevano avviato lei e mia nonna e, anche approfittando del grande boom dell’enogastronomia, l’ho fatto conoscere oltre i confini della città. Ho aperto un locale, cambiato qualche strumento di lavoro e i miei figli hanno fatto degli ulteriori step, lavorando sempre per andare il più vicini possibile alla perfezione. Ma restiamo artigiani, le pizze le devi fare una con la massima cura anche se si tratta di un prodotto semplice e per tutti. Il valore della famiglia? È quello di lavorare insieme per farlo nel miglior modo possibile».