Casa Balla e la gastronomia futurista

Design Challenge: Casa Balla e la gastronomia futurista

Apre al pubblico la dimora romana dell'artista, uno dei fondatori del gruppo di avanguardia. Uno spunto per riscoprirne l'originale arte di alimentarsi.

A Roma, in via Oslavia, esiste un luogo prezioso. Lo straordinario appartamento in cui Giacomo Balla — uno dei fondatori del movimento futurista — ha vissuto e lavorato, insieme alla sua famiglia, tra il 1929 e il 1958. Rimasto per decenni inaccessibile, è stato allestito e aperto al pubblico in occasione dei 150 anni dalla nascita dell’artista, grazie al contributo del MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo. Contestualmente, fino a novembre 2021, è in corso al museo una collettiva che vede architetti, designer, grafici e artisti contemporanei confrontarsi con le prospettive futuriste sul tema della “casa d’arte” e rielaborarne le tracce più attuali.

Attraversare la soglia di Casa Balla significa accedere a un universo caleidoscopico e muoversi nelle trame di un ordito molto vasto, dove ogni centimetro quadrato è inserito nel disegno programmatico di un visionario. Un «progetto diffuso — per dirlo con Domitilla Dardi, curatrice dell’iniziativa insieme a Bartolomeo Pietromarchi — che riguarda i quadri tanto quanto i piatti di ogni giorno, le sculture, gli arredi, ma anche i vestiti che i proprietari indossavano, diventando essi stessi opere d’arte semoventi». Un’idea di design replicabile, popolare e incredibilmente moderna, ispirazione per generazioni di creativi a venire. Per il gruppo di avanguardia l’arte era la lama che lacera i tradizionalismi di un’Italia in fermento, attraversata da spinte nazionaliste e rivoluzionarie che richiedevano nuove formule per il vivere sociale. Era necessario manomettere tutto ciò che, oltremodo casalingo e ordinario, rischiava di fiaccare l’animo umano, a partire dall’abitazione e dal suo cuore pulsante: la cucina.

“Nasce con noi futuristi la prima cucina umana, cioè l’arte di alimentarsi. Come tutte le arti essa esclude il plagio ed esige l’originalità creativa”, scriveva Tommaso Maria Marinetti, autore, insieme a Fillia, de La cucina futurista (1932). Un manuale che raccoglie precetti e manifesti pubblicati a più riprese nel decennio precedente e che conferma la fiducia appassionata nelle possibilità trasformative e poetiche della gastronomia, in straordinario anticipo sui tempi.

Il tavolo da pranzo, come le sedute della cucina Balla, è una costruzione geometrica composita, ergonomica, con la stessa vitalità plastica delle più celebri opere pittoriche. Le maioliche, le bottiglie, i tessili e il vasellame brillano di colori sgargianti e forme inconsuete, funzionali alla meraviglia di un servizio distante anni luce dalla monotonia delle “porcellane bianche con la riga bleu o d’oro, tanto care ai borghesi”. è chiaro dunque quanto l’atto dell’alimentarsi si allarghi oltre il proprio fine nutritivo, per cominciare dall’allestimento dell’ambiente e dal design degli oggetti. Forme, queste, di “piacere tattile prelabiale” assolutamente in linea col pasto.

Se gli italiani intendono sollevarsi dalle pastoie di un passato fiacco e paludato per condurre una vita sempre più aerea e veloce, che cessino poi, in quelle meravigliose stoviglie, di versare pastasciutta. Ecco il primo, e per l’epoca inaudito, enunciato del perentorio manifesto, che entra nel merito della dietetica per raggiungere un piano politico. Meno pasta, a detta di qualcuno pesante e indigesta, significa più derrate di frumento da destinare al pane — alimento sano, antico e italico per eccellenza — e maggiore domanda di riso nazionale.

Gli autori si addentrano nell’ambito squisitamente culinario, pubblicando “formule” con ingredienti in violento contrasto gustativo e piatti con strutture ardite, architetture complesse e qualche effetto speciale, che ci permettono di parlare di forme esordive di food design. Nessuna concessione, inoltre, alle lunghe cotture degli stufati densi e disfatti, retaggio di una cucina contadina che snatura gli alimenti; nessuna censura alla combinazione brutale di crudo-cotto, dolce-salato, caldo-freddo. Non ultimo, un servizio orchestrale che abolisce l’uso di forchetta e coltello a favore della presentazione di “bocconi simultanei e cangianti”, capaci di contenere sapori molteplici e depositari della stessa “funzione analogica immensificante che le immagini hanno nella letteratura”. Un approccio libero, spericolato e anti-dogmatico che oggi non sorprende, ma che ebbe, nei primi anni Trenta, un impatto deflagrante.

Mentre nell’appartamento di via Oslavia si dischiude una bolla temporale del sapore intimo e domestico, prerogativa fondamentale della gastronomia futurista è l’aspetto collettivo del banchetto. Dalle famigerate cene avanguardiste di quegli anni si arrivò, nel 1931, a inaugurare la Taverna Santopalato di Torino: un locale progettato nelle forme e nei materiali da architetti e artisti, con l’uso preponderante di alluminio italiano a conferire splendore, leggerezza e flessibilità. L’offerta prevedeva complicati menù degustazione in cui al servizio di vivande fantasiose, ardite e inaspettate si associavano declamazioni poetiche, musica, istruzioni performative e somministrazione di profumi che coinvolgessero gli avventori in un’esperienza multisensoriale. Il convivio futurista si presenta così come una vera forma di arte ambientale, un’esperienza estetica atmosferica costituita da processi, non da oggetti — per citare Nicola Perullo, filosofo e professore ordinario di Estetica — e si realizza come strumento di propaganda verso un certo stile di vita e posizione politica nel mondo.

Ai cuochi professionisti si richiedeva poi una dotazione di “strumenti scientifici” per manipolare gli alimenti sul piano chimico e fisico: ozonizzatori, lampade a raggi ultravioletti, elettrolizzatori, centrifughe, oltre a indicatori di acidità e basicità che aiutassero a correggere errori nel bilanciamento dei sapori. Tutto questo per riuscire a realizzare, in futuro, il “pranzo perfetto, che esige un’armonia originale della tavola con i sapori e i colori delle vivande e l’originalità assoluta delle vivande stesse”.

La cucina molecolare, con il suo approccio rigoroso e tecno-emozionale alla costruzione del gusto era, nel 1932, senza dubbio solo un miraggio. Forse, però, non così lontano.

 

Ricette dinamiche:

Al Garum, Biblioteca e Museo della Cucina a due passi dal Circo Massimo di Roma, è conservata una prima edizione del celebre manuale La cucina futurista, scritto a quattro mani da Filippo Tommaso Marinetti e Fillia (pseudononimo di Luigi Colombo).

Una raccolta di ricette a dir poco coraggiose, come la “Cotoletta-tennis”, il “Boccone squadrista” e il celeberrimo “Carneplastico”: una polpetta cilindrica di vitello ripiena di verdure disposta verticalmente al centro del piatto, completata con miele e sostenuta da salsicce e sfere di pollo. Un sorprendente mix di sapori e consistenze che voleva essere — a detta degli inventori — un’«interpretazione sintetica degli orti, dei giardini e dei pascoli d’Italia».

‘Tavolo sociale’ d’autore:

Agli artisti e creativi in mostra al MAXXI per “Casa Balla. Dalla Casa all’universo e ritorno” è stato chiesto di lavorare sui materiali contemporanei che i Futuristi avrebbero apprezzato e utilizzato. Nasce così The Communal Table, un progetto della designer spagnola Patricia Urquiola, art director di Cassina dal 2015. Un grande tavolo in policarbonato trasparente colorato, che si ispira alle asimmetrie e ai tagli diagonali dei mobili di Balla come alle compenetrazioni iridescenti dei dipinti futuristi. Un pensiero sul valore sociale, performativo e conviviale del condividere un pasto, in una visione umanista dell’architettura e del design.

Maggiori informazioni

Foto di M3Studio courtesy Fondazione MAXXI ©GIACOMO BALLA, by SIAE 2021

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