Amatriciana, carbonara, cacio e pepe. Per molti il menu “romano” è circoscritto principalmente ai primi piatti; ma sebbene nessuno ne neghi l’appeal, non di soli carboidrati si vive all’ombra del Colosseo. Tutt’altro: il repertorio sciorinato da osti e ristoratori è decisamente più ampio e grazie all’attento lavoro di riscoperta di molti cuochi si è arricchito di pietanze che sembravano ormai confinate a ricettari d’antan e ricordi d’infanzia. Così oggi è possibile riassaporare piatti “delle feste” come la stracciatella alla romana (un brodo di carne arricchito da pecorino grattugiato e uova sbattute fino a formare dei piccoli “stracci”) e la deliziosa minestra di broccoli e arzilla (razza), o escamotage popolari come l’uovo in trippa: strisce di frittata condite con il classico intingolo a base di pomodoro, pecorino e mentuccia a sostituire la frattaglia, quando i soldi scarseggiavano anche per il “quinto quarto”, altro capitolo fondamentale della tradizione romana.
Così si definivano infatti le parti che avanzavano dalla macellazione degli animali – solitamente divisi in quarti, appunto – e che gli addetti al mattatoio tenevano per le proprie famiglie o rivendevano a poco a chi non poteva permettersi tagli più pregiati. Come spesso accade, dalla necessità di rendere più appetitose le frattaglie sono nate così grandi ricette che oggi è facile trovare nei menu dei ristoranti del quartiere di Testaccio – dove si trova anche uno dei mercati rionali cittadini più vivaci, riedificato proprio di fronte al mattatoio – e non solo, che siano trattorie o tavole gourmet: dalle animelle fritte alla coratella (mix di interiora solitamente d’agnello o di abbacchio, altro protagonista della cucina romana cucinato alla griglia “a scottadito” o panato e fritto), dalla pajata (l’intestino tenue del vitellino da latte, con cui si prepara un saporito sugo per la pasta) alla monumentale coda alla vaccinara, nella cui elaborata ricetta papalina – adattata dai cuochi per i palati più raffinati – rientra anche il cacao.
Molte di queste ricette appartengono a un’altra tradizione importante, quella della cucina giudaico-romanesca: nata dall’incontro tra gli ingredienti locali e le prescrizioni della regola del kashrut, ha dato vita a ricette deliziose come il tortino di aliciotti con indivia, i fiori di zucca fritti (che nascondono un ripieno di ricotta e alici) e i carciofi alla giudia, con le “mammole romanesche” aperte a formare un fiore e immerse nell’olio bollente per uscirne con i “petali” croccanti e il cuore morbido (mentre quelli “alla romana” sono stufati con abbondanti erbe aromatiche e aglio fino a diventare fondenti).
Non va dimenticata, poi, la produzione dolciaria capitolina. Poco nota e di certo non ampia come quella di altre città italiane, vanta tuttavia alcuni “bocconi” irresistibili: dal tradizionale Pangiallo natalizio con frutta secca e miele alla crostata di ricotta e visciole della tradizione ebraica. Per non parlare del maritozzo, piccola brioche ovale moderatamente dolce e solitamente farcita con panna montata – un tempo, a quanto pare, simbolo d’amore donato dal pretendente alla futura sposa – che sta diventando sempre più apprezzato anche fuori dai confini cittadini.
Cibo di strada:
Poche altre città italiane vantano una collezione di street food tradizionale ampia e variegata come quella di Roma. Partiamo dalla merenda capitolina per eccellenza, quella – valida per tutte le ore – a base di “pizza” (tecnicamente, focaccia) cotta nelle teglie dai forni di quartiere nelle tradizionali versioni “bianca” (eventualmente da “spaccare” e farcire con mortadella o altri salumi) e “rossa”. O spesso in deliziose varianti più elaborate e originali negli innumerevoli negozi di “pizza al taglio”, dove acquistarla a peso indicando quanta se ne desidera.
Una curiosità: dal 2019 la versione più antica di questo prodotto, la “Pizza bianca romana alla pala del fornaio” – cotta direttamente sulla base del forno, senza teglia, e infornata e sfornata con l’ausilio di una pala di legno oblunga – è stata riconosciuta come Prodotto Agroalimentare Tradizionale italiano.
Impossibile poi non menzionare i supplì (il nome deriverebbe dal francesce surprise, sorpresa) goduriose “polpette” di riso condito con diverse tipologie di sugo – da quello classico con salsa al pomodoro e fiordilatte copiosamente filante, tanto da essere chiamato “al telefono”, fino a quello con le rigaglie di pollo – e panatura super croccante, la cui arte sta diventando una nuova disciplina olimpica cittadina. Restando in tema di fritto, vale la pena addentare anche un succulento e cocente filetto di baccalà in pastella, altro amatissimo lascito della tradizione giudaico-romanesca. E per rinfrescarsi? Fermatevi a uno dei chioschi di “grattachecca” lungo il corso del Tevere e scegliete con che sciroppo insaporire il ghiaccio appena grattato, per un assaggio dolce di romanità.