Leonildo Pieropan è stato un innovatore in vigna, in cantina, ma anche nel mondo del vino in generale. Assieme a pochi pionieri fu infatti tra fondatori della FIVI, che da un’accolita di pochi vigneron indipendenti oggi è diventata una organizzazione vivace che conta 1400 associati. È dedicata a lui la nuova cantina dell’azienda vitivinicola nata nel cuore del borgo di Soave. Commozione e sorrisi sono il segno tangibile di cosa voglia dire per la famiglia Pieropan il varo della nuova struttura. Per un’azienda abbastanza piccola – tutt’ora la produzione supera di poco le 650mila bottiglie – e familiare, la conclusione di un progetto così imponente è a tutti gli effetti uno snodo cruciale nella sua storia lunga 125 anni. Non è un caso, infatti, che dopo la morte di Leonildo Pieropan la cantina storica nel cuore del borgo di Soave non sia più stata utilizzata per la vinificazione e tutto il lavoro sia stato traslato nei 10mila metri quadrati della nuova struttura.
Cantina tech e green
Nonostante sia già operativa da qualche anno, l’inaugurazione ufficiale della nuova “casa” di Pieropan ha atteso l’allentamento delle misure anti-Covid e subito il progetto firmato dall’architetto Moreno Zurlo di Acme Studio a Verona ha vinto il premio internazionale Ecotechgreen della rivista Paysage. Per portare a compimento questo ambizioso progetto ci sono voluti cinque anni di lavoro. Per tutelare il paesaggio circostante, la struttura ipogea quasi si nasconde sinuosa sotto la collina, coniugando efficienza e sostenibilità. «La nuova cantina e i grandi progetti che la mia famiglia sta portando avanti sono, di giorno in giorno, il nostro modo di ricordare Leonildo – sottolinea la moglie Teresita Pieropan – La cantina è un omaggio a ciò che lui ha rappresentato, non solo per lo stile inconfondibile dei suoi vini, ma anche per l’esempio di coerenza e dedizione che ci ha lasciato. La sua grande attenzione per il dettaglio, la meticolosità e l’amore per il bello vivono oggi nella nuova realtà e ciò rimarrà un lascito indelebile per le generazioni future».
Un Calvarino dell’Anima
Per celebrare l’importante momento della storia della famiglia, i figli Andrea e Dario con la madre Teresita hanno scelto di presentare quest’anno Calvarino 5, vino prodotto in edizione limitata che rappresenta un unicum nel panorama dei vini bianchi italiani. Frutto dell’assemblaggio di cinque annate di Calvarino, che hanno sostato mediamente dieci anni in cantina in vasche in cemento, è una sintesi dei millesimi dal 2008 al 2012. La novità multi-vintage è un vino elegante e forse sofisticato, che però in termini di personalità paga lo scotto di un’etichetta costruita in cantina e probabilmente meno identitaria. Calvarino 5 è il primo vino della Collezione Vini dell’Anima, che sarà ampliata nei prossimi anni.
La rivoluzione del Calvarino (che emoziona in verticale)
Il Calvarino è il vino di famiglia per Pieropan. È un pensiero incastonato in bottiglia, che racconta l’evoluzione di una consapevolezza enologica cresciuta di generazione in generazione. Il vigneto era già parte del primo nucleo di terreni acquistati nel 1880 da Leonildo Pieropan, medico condotto a Soave e appassionato di vino. È stato però il nipote – anche lui Leonildo – a imporre una svolta all’azienda, contribuendo a fare la storia della cultura enoica italiana. Tornato dalla Scuola di enologia di Conegliano, ha lasciato basiti tutti i compaesani introducendo innovazioni in vigna (come la potatura verde, per ridurre la produzione e aumentare la qualità delle uve) e in cantina. Si deve a lui infatti la scelta di mettere il Calvarino in etichetta, facendone il primo singolo appezzamento di vino nativo italiano. Un cru di vitigni autoctoni – la Garganega e il Trebbino di Soave, oggi in proporzione 70/30 – che nel 2021 ha celebrato le 50 vendemmie. C’è chi ricorda ancora l’etichetta scritta a mano da Alice Pieropan come emblema di un vino della famiglia. E proprio perché ogni generazione ci ha messo del suo, anche Dario Pieropan (figlio di Leonildo, oggi l’enologo della cantina) ha giocato un ruolo essenziale nel 2003, proponendo di uscire un anno dopo.
«Il Calvarino era un vino d’annata – ricorda – e tutti dicevano: è buono quando è finito. Era però troppo giovane e ho spinto per farlo uscire dopo. Una scelta non facile, perché sarebbe costato non poco e poi avevamo una cantina piccola per stoccarlo. Alla fine però mio padre mi ha dato spazio e dal 2003 il vino matura in vasche di cemento un anno in più».
Opzione rischiosa, ma capace di seguire la linea della vita di un vino che oggi – per chi ha la fortuna di assaggiare le vecchie annate – è un baluardo di longevità e uno spot facile alla bellezza del cemento anche per i vini bianchi. Se infatti al sorso il 2020 (oggi sul mercato) non soffre il calore dell’annata e si propone con un’acidità elegante, una mineralità viva e una sapidità che ne allunga la persistenza, l’annata 2014 ha sentori più vivi e umidi, un’acidità presente e un profilo definito, plastico, elegante; ancora l’assaggio dell’annata 2011 si allarga con una complessità sapida e minerale. È però la degustazione del Calvarino 1992, annata considerata orribile, a emozionare con un invecchiamento pazzesco: in trent’anni di bottiglia non ha perduto mineralità (al naso emerge il basalto che assieme al tufo caratterizza i terreni) e l’acidità, sia pure armonizzata, di un vino vivo e bello, tagliente e sapido.