Sveglie all’aba, giornate infinite, niente feste comandate perché gli animali non vanno in vacanza e il latte non aspetta. Tra i tanti mestieri dell’enogastronomia, quello del casaro (che spesso va a braccetto con allevamento, vendita, scartoffie) è tra i più impegnativi. Eppure, sono in tanti – spesso giovani, non raramente donne – a dedicarsi al formaggio, riprendendo attività di famiglia e antiche tradizioni o cambiando vita, in cerca di nuove soddisfazioni: quelle date da animali in salute e trattati con rispetto, dal latte che profuma di fiori ed erbe, dalla gioia di chi assaggia un cibo buono e nutriente. Con la consapevolezza che l’uomo può ancora agire in sintonia con la natura, a patto di procedere con riguardo, ritrovando tempi lenti e pratiche ancestrali. Senza dietrologia: i “nuovi” casari sanno bene quanto sia importante comunicare i propri prodotti, a fini commerciali e non solo, e il più delle volte si destreggiano con lo smartphone bene quanto con pala e spino.
Pensiamo a Manuel Lombardi – ribattezzatosi “contadino 2.0” per raccontare sui social le sue attività e la sua terra – che ha lasciato l’informatica per dedicarsi a Le Campestre, l’azienda di famiglia a Castel di Sasso (CE), affiancando i genitori nel portare avanti il sogno lungimirante del fratello Fabio, scomparso giovanissimo in un incidente: recuperare e far conoscere il Conciato Romano, antico e poderoso formaggio stagionato in anfora che oggi è un ingrediente prediletto di chef e pizzaioli. Ma la mappa dei casari è ampia e complessa, segue altimetrie dei pascoli e tradizioni locali, storie di famiglia e vocazioni personali. Bisogna salire a Giaveno (TO), borgo piemontese tra Val Susa e Val Sangone – e in estate ancora più su, sugli alpeggi del Piccolo Moncenisio, nell’Alta Savoia francese – per incontrare Alain Quaranta. Trentatré anni, da quando è maggiorenne è il casaro dell’azienda Giovale, avviata dal bisnonno Eligio (oggi parte della cooperativa Re Rustica). «Ma fin da piccolo andavo a scuola e poi in caseificio a dare una mano: mi piaceva guardare il mio prozio, o la nonna, che facevano il formaggio». Lui fa un po’ tutto: dalle mungiture del mattino e della sera alla cura degli animali, e pure il mercato del sabato a Torino, affiancando la sorella Chantal. E si sposta a seconda delle necessità: nell’alpeggio del Piccolo Moncenisio a oltre 2mila metri, dove ci sono le vacche di razza Barà Pustertaler, il latte va trasformato subito perché non c’è elettricità e dunque frigoriferi: tome al mattino, burro (di panna) alla sera. In un alpeggio più in basso ci sono le capre, mentre le restanti lavorazioni si fanno a Giaveno e la stagionatura nella vicina Reano. Alain si diverte a sperimentare sulle paste filate – estranee alla tradizione locale – con mozzarelle e scamorze d’alpeggio, ma il suo formaggio preferito resta il lait brusc (latte acido, in patois), fatto con il latte della mungitura serale lasciato riposare la notte per un’acidificazione naturale.
Ben diversa la storia di Elisa Manig, casara friulana non ancora trentenne. Con una laurea in Tecniche di Radiologia e Radioterapia a Udine e un anno e mezzo di lavoro negli Stati Uniti, nel 2019 durante una pausa a casa ha pensato di rimettere in ordine la piccola azienda dei nonni a Tiglio, frazione di San Pietro al Natisone (UD). Da lì, la decisione di restare e far formaggio, acquistando tre vacche gravide di razza Pezzata Rossa e imparando tutto da zero, soprattutto dal padre (esperto casaro che oggi l’affianca nella produzione). Durante il lockdown si è dedicata ai social e alla consegna a domicilio, e questo ha consolidato l’azienda: oggi conta una trentina di vacche. Elisa trasforma solo latte intero — e biologico: gli animali mangiano fieno locale e cereali e hanno libero accesso ai pascoli — in ricotte e mozzarelle, caciottine e formaggi spalmabili aromatizzati con ingredienti locali (dall’erba cipollina al rafano) o nelle forme di San Canziano (formaggio tipo Latteria che prende il nome da una vicina chiesetta) che stagionano fino a sei mesi; poi ci sono gli yogurt, da bere o cremosi, che ha ribattezzato Yomači — da yogurt e domači, “fatto in casa” in sloveno — e hanno consistenza e sapori unici per via della lavorazione interamente manuale. Tutto in vendita nel piccolo spaccio o tramite gruppi di acquisto. «Lavoro 12-14 ore al giorno — conferma Elisa — ma sono felice. Ho dovuto superare un bel po’ di pregiudizi: giovane, donna, senza esperienza. Visti i risultati, anche commerciali, la soddisfazione è doppia».
Si trova a ridosso delle mura medievali di Viterbo la Piccola Formaggeria Artigiana di Marco Borgognoni, 38 anni, aperta lì con il preciso intento di mostrare come nasce il formaggio nel laboratorio a vista. Appassionatosi durante gli studi in Agraria all’Università della Tuscia, Marco ha iniziato a caseificare in campagna con i pastori, prima di lavorare in un caseificio locale specializzato nella produzione di pecorino: «Ma per me l’idea di fare ogni giorno lo stesso prodotto, pur con tutte le sfumature del latte, era frustrante. Nel 2018 ho deciso di aprire una mia attività per applicare al nostro latte di pecora le tecniche dei formaggi a pasta molle di stampo francese, solitamente vaccini o caprini». Studio e tante prove sono alla base di formaggi di pecora strepitosi come il Borgognone (erborinato blu), lo Stracchinato dei Papi (dall’opulenta pasta molle e la crosta sottile appena muffata) e la Toma di Pecora Viterbese realizzata in due versioni: quella in stile piemontese, a pasta dura e asciutta, e quella in stile lombardo, a pasta morbida e untuosa (pure nella variante con finocchietto selvatico, dai campi locali, che dà una nota fresca e aromatica). Poi ci sono gli yogurt, il Pecorino dell’Arcionello (che prende il nome dalla vicina Riserva Naturale) e le mozzarelle vaccine, filate a vista secondo la stagionalità del latte. «L’attenzione alla materia prima è il focus principale: ho due fornitori, un allevamento semibrado di pecore e uno di vacche, entrambi vicini. Il latte è estremamente variabile per consistenza e aroma, non c’è standardizzazione: la natura comanda sul processo produttivo», spiega Marco, che non usa additivi o antimuffa chimici (solo sale) e fa stagionare i suoi formaggi su legno naturale di abete della Val di Fiemme. Un passo alla volta – anche grazie alla collaborazione di Vincenzo Mancino, selezionatore e affinatore, che ne ha colto subito il potenziale – l’attività è cresciuta e la squadra sta crescendo; ma per Marco – che ha iniziato da solo – la parte più complicata resta la gestione burocratica, oltre alla logistica di un centro cittadino Da Napoli al Cilento storico tra Lustra e Omignano (SA), per amore e per salvaguardare un patrimonio
fatto di tradizioni e sapori che rischiavano di andar perduti. Annacarla Tredici, giornalista enogastronomica e comunicatrice partenopea, insieme al compagno Andrea Giuliano è l’artefice della Tenuta Principe Mazzacane e del progetto Vis Capra, in collaborazione con l’Istituto di Alta Cultura Giambattista Vico di Perdifumo (in queste zone il filosofo napoletano visse alcuni anni). Al centro, il recupero della capra Cilentana, razza autoctona dal latte prodigioso — per via di una peculiarità genetica, è particolarmente
ricco e dà alte rese nella trasformazione — ma quasi abbandonata. E pure la ripresa delle storie familiari: il bisnonno di lei fu uno degli ultimi allevatori napoletani, mentre il padre di Andrea — il signor Adriano, che fa da capostalla — ha avuto a lungo un allevamento in Cilento. La produzione – di cui si occupano Annacarla e la cognata Federica – è partita dal cacioricotta, formaggio locale che, anche
se viene spesso usato da grattugia, ha potenzialità ben più ampie: «In Cilento, fino a qualche decennio fa, tutti avevano almeno una capra e lo si faceva in casa. Noi abbiamo studiato a lungo per avere un latte di alta qualità e mettere a punto quattro diverse tipologie, dal fresco al super stagionato — spiega lei —. Siamo certificati bio e abbiamo improntato l’allevamento sul benessere animale più completo. Termizziamo invece il latte per permettere a tutti, donne incinte incluse, di mangiare il prodotto». E intanto alle capre Cilentane si sono affiancate anche delle Camosciate delle Alpi, per assicurare la produzione di yogurt e di caprini di stampo francese (ma dall’imprinting mediterraneo).
È una storia di “ritorni” quella di Angelantonio Tafuno, ventinovenne pugliese oggi alla guida del caseificio Stella Dicecca, avviato dal nonno e portato avanti dalla madre nel centro di Altamura (BA): lui ci è cresciuto, anche se da piccolo preferiva stare in campagna con gli animali. Alla fine si è innamorato dell’arte casearia: «Sono stato in Francia e in Inghilterra per approfondire le conoscenze tecnico-scientifiche ma poi sono tornato ad Altamura con una nuova consapevolezza, affinando alcune tecniche tradizionali e facendo attenzione alla sostenibilità», spiega Angelantonio. Lo scorso anno ha inaugurato il Muh Bar (un cheesebar dove assaggiare i prodotti) e ha in programma di avviare un piccolo allevamento per puntare sull’autoproduzione e il controllo completo di filiera, per una materia prima “buona” in tutti i sensi. Tra i prodotti — oltre a splendide burrate, mozzarelle da siero-innesto, caciocavallo a latte crudo — c’è il Pallone di Gravina, antico formaggio vaccino a pasta filata dalla caratteristica forma sferica, che stagiona nelle grotte della Murgia: «Citato già nell’Enciclopedia Agraria del Regno di Napoli del 1859, appartiene alla tradizione della transumanza: da qui passava il tratturo che andava da Taranto a Melfi», spiega Angelantonio, referente del Presidio Slow Food. È nei pascoli sardi di Escalaplano che nasce invece un formaggio unico, e dal nome complicato per i non nativi: l’axridda (si pronuncia pressappoco “asjridda” e vuol dire argilla), anch’esso tutelato da un Presidio Slow Food. Siamo nella regione storica del Gerrei dominata da Sa Trona, un’enorme roccia piatta che spunta dalla montagna. Qui si trova l’azienda Fossada, avviata da Rino Farci — classe 1971, geometra con studi in geologia, assaggiatore Onaf — circa quattro anni fa, in piena crisi del latte: «I miei erano allevatori, ma vendere il latte non aveva più senso economico, lo si versava in strada per protesta. Così ho deciso di uscire dalla cooperativa, e dagli schemi, e di iniziare a trasformarlo riportando alla luce questo formaggio. Ho ripreso la lavorazione di una volta: pascoli naturali, mungitura a mano, lavorazione a latte crudo, il massaggio con argilla e olio di lentisco per proteggere la crosta dalle muffe e farlo stagionare a lungo, acquistando profumi unici». Il latte biologico (con cui realizza anche altri formaggi tradizionali come il casu axedu e sa frue) è quello delle pecore di razza Sarda che pascolano all’ombra di Sa Trona: 200 ettari per circa 350 capi, in una terra ricca di biodiversità mediterranea; l’argilla viene da una cava locale, l’olio di lentisco Rino lo produce in azienda. E fa da sé anche tutto il resto, inclusa la comunicazione sui social. Intanto non lontano, a Gergei (SU) — cittadina del Sarcidano nei pressi della Giara di Gesturi — sta vedendo la luce Sinnos, il micro caseificio rurale di Samuel Lai e della moglie Emanuela: il nome si riferisce ai “segni”, piccoli tagli che i pastori facevano sulle orecchie delle pecore per riconoscerle ed evitare furti. Militare di professione, Samuel aveva già restaurato una casa tradizionale del XIX secolo trasformandola in Domu Antiga, agriturismo dal fascino rustico. La passione per i formaggi lo ha condotto a questa nuova avventura trasformando il latte di 300 pecore di razza Sarda (in parte già della famiglia di Emanuela) in Fiore Sardo — qui non affumicato ma massaggiato con la morchia dell’olio — e in robiole, brie, stracchini: «Con altri ragazzi della zona ci siamo accordati e abbiamo fatto venire qui dei casari sardi e “continentali” per
imparare nuove tecniche». L’unione fa la forza, anche quando si tratta di formaggio.