La mia vera iniziazione – ché di culto si tratta – è avvenuta un bel po’ di anni fa, al Belmond Hotel Cipriani di Venezia. Non che non avessi assaggiato prima altri Club Sandwich, ma questo era tutta un’altra storia. Approdato alla Giudecca al termine di un elettrizzante viaggio a bordo del Venice Simplon-Orient-Express, avevo preso possesso della mia stanza nell’ala di Palazzo Vendramin, con una vista gloriosa sulla sagoma di San Marco, e per sublimare quel momento di intimo giubilo c’era un’unica scelta possibile: sul menu del room service lampeggiava il più aristocratico dei panini (ma non chiamatelo così). Una versione impeccabile, nella sua filologica aderenza alla ricetta originale, con tre fette di pane tostato e dorato al punto giusto, la farcitura umida e ben amalgamata, le patatine (contorno fondamentale!) croccanti e salate. Nessun dubbio sull’abbinamento: un Gin Tonic con scorza di limone. Da allora ho ordinato e divorato Club Sandwich ovunque, ogni volta che ho avuto la possibilità, in ogni versione: classica o eretica, dozzinale o d’autore, striminzita o ipertrofica, con pollo, salmone o addirittura astice, con o senza uovo, a triangoli o in quarti. E ho capito una cosa: che al di là del piacere del gusto, il Club Sandwich ha la precisa alchimia per accompagnare alcuni episodi della vita, come un comprimario ideale, e per fissarli nel tempo e nello spazio, come una personale Polaroid. Per dire: i pomeriggi d’estate al Pellicano di Porto Ercole, uno dei miei luoghi del cuore, sono sempre stati scanditi dai Club Sandwich addentati sui lettini tra gli scogli, dopo un tuffo, e New York è un po’ meno New York da quando il NoMad Hotel ha chiuso e non posso più ordinare il loro leggendario Club Sandwich al bancone del bar vestendo i panni di un personaggio di Mad Men. Per fortuna c’è Roscioli, la mia seconda casa romana: nella saletta sul retro del loro Caffè mi rifugio per assaggiare – tra le mille altre bontà – una delle migliori versioni in circolazione, in cui la differenza la fanno la qualità del pane in cassetta che esce dal loro forno e l’uovo al tegamino, che si rompe lasciando colare il tuorlo sugli strati del sandwich, a mo’ di salsa. Capite dunque la soddisfazione di pubblicare una “special edition”, ancora più golosa, che Alessandro e Pierluigi Roscioli hanno pensato per noi e soprattutto per voi lettori (trovate qui la ricetta).
La storia del Club Sandwich, conosciuto anche come Club House Sandwich, contiene quella quota di incertezza tipica di ogni dissertazione culinaria: secondo The Encyclopedia of American Food & Drink, fu preparato e servito per la prima volta nel 1894 agli incalliti giocatori del Saratoga Club House di Saratoga Springs (oggi Canfield Casino) nello stato di New York. Altre fonti vanno ancora più indietro, al 1889, e dicono che fu invece lo chef dello Union Club di New York, altra casa da gioco per soli uomini, a codificarlo. Queste iniziali preparazioni, in ogni caso, prevedevano due sole fette di pane (double-decker) e non le tre (triple-decker) che riteniamo oggi una consuetudine. Nel 1903, su Good Housekeeping Everyday Cook Book di Isabel Gordon Curtis, compare la ricetta che spiega come preparare questo “pasto completo”: pane tostato uniformemente e imburrato, fetta di bacon grigliata fino a renderla asciutta e tenera, fetta di carne bianca di tacchino e pollo, pomodoro maturo tagliato a rondelle e foglia di lattuga, il tutto ricoperto da un abbondante strato di maionese. Gli ingredienti, nel corso del tempo, sono rimasti pressoché gli stessi e il Club Sandwich si è affermato come cibo di culto, icona gastronomica globalizzata, comfort food per antonomasia, il più amato da viaggiatori e chef. Ed è entrato negli hotel di lusso, di cui è un accurato biglietto da visita: è dalla qualità del Club Sandwich che capisco immediatamente il livello di un albergo (e soprattutto del suo room service). Sbagliarlo equivale a perdere la reputazione. È anche il piatto della gavetta di ogni giovane cuoco che entra in una struttura alberghiera: la prova obbligata per scalare le gerarchie in brigata o l’occasione di riscatto di chi si trova (anche per punizione) a presidiare le cucine nei turni pomeridiani o notturni, fuori dai pasti comandati.
A proposito (ancora) di hotel, è Milano la città che offre maggiori certezze. Antonio Guida propone al Mandarin Oriental un Club Sandwich buono e curato proprio come quello dei suoi anni all’Argentario, citato qualche riga più sopra. Guido Paternollo, giovane e talentuoso chef del Park Hyatt, utilizza pomodori confit al posto di quelli crudi e maionese alla senape in grani, non facendo rimpiangere la precedente versione di Andrea Aprea (che aveva lasciato l’hotel e nel frattempo ha inaugurato il nuovo progetto, in cui non manca il suo strepitoso Club Sandwich, non temete). E Fabrizio Borraccino, al Four Seasons, conferma la consueta cura per i dettagli e sensibilità per le materie prime: grattugia l’uovo sodo e lo amalgama insieme alla maionese (così da rendere il tutto più omogeneo ed evitare che cada) e utilizza un pollo di qualità insuperabile, quello dell’azienda vercellese Moncucco. A volte è proprio la scelta degli ingredienti a fare la differenza: a Fontanelle Estate, nella campagna chiantigiana di Castelnuovo Berardenga, Giuseppe Iannotti (chef del due stelle Michelin Krèsios di Telese Terme) usa solo le uova azzurre da galline di razza Araucana allevate in Friuli da Daniele Riva. Non sono un talebano del Club, ammetto twists on classics, purché sensati o migliorativi. Ecco perché riesco ad apprezzare anche quello decisamente ribelle di Eugenio Roncoroni, chef di Al Mercato Steaks & Burgers che con il suo passaporto italo-americano può permettersi di rompere le regole: due (e non tre) strati di pane alto al tartufo, pollo marinato con la salsa allo yogurt e cotto alla brace e aggiunta di fonduta di cheddar.
Anche al Cibrèo Caffè dell’Helvetia & Bristol, storico cinque stelle di Firenze, viene servita una variante glocal, con pane “Santo” lievitato lentamente e tagliato a fette come nei tradizionali panini toscani, il roast beef di Fassona piemontese (il manzo al posto del pollo) e una gustosa senape fatta con carote, olio, limone e curcuma. A Roma c’è un’altra interpretazione non convenzionale da non perdere: quella con pastrami, cetriolini e cavolo rosso fermentato messa a punto dal giovane team di Latta, moderno pub e bistrot per appassionati di fermenti e miscele. E che dire della traduzione eoliana di Martina Caruso – con tonno, maionese ai capperi, melanzane grigliate e acciuga – in carta all’hotel Signum di Salina? Vale il lungo viaggio per raggiungere le Eolie.
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