Se ogni territorio, soprattutto in Italia, è un collage di identità che segnano in maniera indelebile e peculiare la corrispondente personalità dei vini, la Campania vive una profonda caratterizzazione legata alla differenziazione dei suoli e alla presenza di vitigni autoctoni che affondano le radici nella storia. In questo contesto, parlare di vini campani risulta inevitabilmente una sovrageneralizzazione e anche provare a descrivere con una pennellata omogenea lo stato dell’arte del fare vino in questo territorio presenta limiti oggettivi.
Con la consapevolezza di questo limite, l’assaggio di centinaia di referenze prodotte tra il Vesuvio e il Sannio, tra l’Irpinia e il Cilento, permette di identificare un lavoro in corso. Un’opera lenta e (forse) inesorabile che incarna le progettualità enoiche della regione.
Al netto delle grandi differenze ora percepibili nei calici delle diverse denominazioni, emerge nel presente del vino campano un impegno trasversale orientato alla (ri)qualificazione dei prodotti e al loro radicamento nella territorialità.
Certo, l’interpretazione di questo “radicamento” si differenzia in maniera sostanziale nei percorsi dei singoli vignaioli o produttori. Se infatti il terroir spicca nitido e smagliante in denominazioni oggi ancora sottovalutate, ma capaci di esprimere intriganti potenzialità – i Campi Flegrei e il Sannio sono un esempio – d’altro canto l’attaccamento a stili di vinificazione tradizionali può risultare penalizzante.
Ecco che dalle degustazioni diffuse (anche grazie all’evento Campania Stories) vengono indicazioni interessanti, soprattutto in prospettiva. E si mettono in luce due protagonisti capaci di incuriosire: la Falanghina e il Piedirosso.
L’insostenibile “pesantezza” del legno (piccolo)
Un esempio di “attaccamento” alla storia viene dalle denominazioni legate all’aglianico. La progettualità enologica legata a questo vitigno autoctono risulta oggi nei calici appesantita dalla scelta di stili poco affini alle tendenze (e forse alle mode) di un consumo del vino – per quel che vale questo termine – più “contemporaneo”.
La “pesantezza” della grande maggioranza di referenze a base di aglianico (spesso poco sostenibili anche per la grammatura delle bottiglie) mostra infatti una limitata capacità dei produttori nell’interpretare l’evoluzione dei consumi di vino delle nuove generazioni. La ricerca di una concentrazione a tratti snervante e l’utilizzo marcante del legno fanno immaginare un respiro corto per questo vitigno della tradizione del Mezzogiorno. Se infatti l’evoluzione della proposta enoica oggi sembra indirizzarsi più verso un alleggerimento dei tannini, della concentrazione, una più spinta ricerca di acidità e di una verticalità scattante e nervosa, troppo spesso nel calice si trovano invece vini appiattiti da un’omologazione che tende alla densità, a una ricchezza strabordante e un po’ troppo impegnativa o a un appiattimento degli slanci, rimanendo legati a una cifra stilistica che trova sempre meno estimatori (pure in contesti da “nuovo mondo“).
Tra dolcezze e speziature, emerge comunque qualche sprazzo di vitalità. Da scoprire l’Aglianico 2020 della cantina Mustilli nel Sannio, capace di una voluttà materica che rivela il frutto integro, o la pulizia dell’Aglianico del Taburno 2018 di Fontanavecchia, la tensione dell’Irpinia Aglianico 2019 di Cantine Marzo e l’amenità dell’Irpinia Campi Taurasini Ion 2019 di Barbot Stefania, ma anche la flessuosità (difficile) del Taurasi di Pietracupa e la potenza de Taurasi 2011 di Perillo. In terra di Cilento risultano più intriganti l’Aglianico Corsaro 2020 di Polito e l’Agriddi 2016 di Albamarina.
Per gli appassionati di espressioni più “lavorate”, si possono suggerire le release di Villa Matilde Avallone (Falerno del Massico rosso Riserva 2016), Di Meo (Campania Aglianico 2018 e Vigna Olmo 2015), Tenuta Scuotto (Taurasi 2018) e Tenuta Cavalier Pepe (La Loggia dei Cavalieri 2015).
Il tempo è galantuomo con Fiano e Greco
Guardando parallelamente ad altri vitigni nobili che hanno segnato la storia di questo territorio, quali il Fiano e il Greco, è assai meno “grave” la tendenza all’appesantimento, anche se la propensione a chablieggiare porta talvolta un eccesso di (sovra)struttura. E se questo in alcuni casi carica i vini di una spinta alcolica non pienamente godibile, in altri ne maschera la natura intima con affinamenti sensibilmente percepibili.
Assodato che l’assaggio di vini a base fiano dell’annata 2021 risulta ben poco interessante, perché la bottiglia non ha ancora fatto il proprio lavoro di affinamento, si segnalano invece per carattere e integrità il Riva 2020 di Viticoltori Cantina Polito, il Fiano 2020 di Pietracupa, il Particella 928 di Cantina del Barone. Avventurandosi invece nei millesimi precedenti, lasciano un’ottima impressione Oinì 2019 di Tenuta Scuotto, il Brancato 2019 di Tenuta Cavalier Pepe, il Pietramara Etichetta Bianca 2019 de I Favati, il Sarno 1860 del 2019 di Tenuta Sarno 1860, l’intenso Dulcinea 2015 di Amarano e il complesso Alessandra 2013 che Di Meo rilascia dopo anni di maturazione.
Anche tra gli assaggi di greco i vini del 2021 risultano troppo giovani e non ancora pronti. Non a caso si deve scendere al 2020 per trovare l’eleganza nelle etichette di Pietracupa e Villa Matilde Avallone, ma il piacere arriva con Elea 2019 di San Salvatore (da Paestum) e con il Greco del Sannio 2018 di Rossovermiglio.
L’eleganza vulcanica della Falanghina e la bevibilità del Piedirosso
Da un tour ampio e approfondito tra le denominazioni campane, spiccano allora due piccoli grandi protagonisti: la falanghina e il piedirosso. Il vitigno a bacca bianca per eccellenza della Campania Felix è stato per lungo tempo sottovalutato, eppure oggi sembra avere le carte in regola per conquistare nuovi estimatori. Con il suo sostrato vulcanico e la spiccata acidità, manifesta una tendenza a evolvere su toni idrocarburici (che richiamano altre nobili denominazioni) con un’agilità che rende divertente la beva finché il vino è giovane, ma porta complessità con il tempo. Ecco che, pur nell’accattivante spessore dei falanghina del Sannio, i Campi Flegrei si rivelano il terroir d’eccellenza per questo vitigno.
In un panorama che vede sale e vulcano protagonisti nel calice, tra le etichette a base falanghina si segnalano l’Etèl di Albamarina dal Cilento per la sapidità spiccata, l’opulento e potente Vigna Caracci di Villa Matilde Avallone dall’Alto Casertano, mentre dal Sannio si fanno godere il Libero di Fontanavecchia, il Vigna Segreta di Mustilli e il Cambio Luna di Cantina Tora (nei toni ossidativi). Tra zolfo e tessiture eleganti spiccano però i Campi Flegrei, con il Sabbia Vulcanica e l’Agnanum di Agnanum (un vino che costa troppo poco!), il Vigne di Parthenope di Quaranta Angelina, i Falanghina sapidi di Cantine del Mare e di Contrada Salandra, il Tenuta Jossa di Astroni.
Spostandosi ai vitigni a bacca rossa, la croccantezza verveuse e la gentilezza sorniona del piedirosso sono in grado di conquistare (quasi) ogni palato. La vinificazione pressoché esclusivamente in acciaio rende i vini contemporanei e immediati. Infatti già l’annata 2021 è capace di sedurre con una vitalità scattante, come accade con Sabbia Vulcanica e Per’ e’Palummo di Agnanum, il Colle Rotondella di Astroni, il Terrazze Romane di Cantine del Mare e con i piedirosso vibranti di Mustilli e Cantine dell’Averno.
La flessibilità del vitigno emerge poi quando il tempo conferisce un’eleganza mai troppo impostata, non soffrendo di appesantimenti in legno. Sono davvero ottimi vini il Sorbo Rosso 2018 di Cantina del Mare e il Tenuta Camaldoli 2017 di Astroni, dai Campi Flegrei, come anche l’Artus di Mustilli dal Sannio.
Meritano una citazione a margine le interessanti etichette di Pallagrello bianco e Pallagrello nero di Alois, Vestini Campagnano e Masseria Piccirillo.