Cotechino (o zampone, insaccato nella zampa posteriore di maiale e non nel budello) e lenticchie: un grande classico del cenone di San Silvestro che nemmeno i più scettici si azzardano a saltare – rimandandolo al massimo al pranzo del primo dell’anno se si è proprio stremati – perché a un po’ di fortuna e ricchezza non vuole rinunciare nessuno (e anche perché è delizioso, se pure non leggero). Il rituale gastronomico scaramantico ha origini antichissime, soprattutto per la parte vegetale, le lenticchie: questi nutrienti e gustosi legumi erano considerati fin dall’epoca romana portatori di abbondanza, ricordando per forma e colore delle piccole monete. Ad aver “inventato” lo zampone sarebbe stato invece Pico della Mirandola, governatore dell’omonima cittadina oggi in provincia di Modena, assediata nel 1511 dalle truppe pontificie: dovendo trovare un modo per conservare a lungo le carni dei maiali macellati per sfamarsi, ebbe l’idea di insaccarle nelle loro stesse zampe.
Ma sono molti altri i rituali gastronomici scaramantici legati all’arrivo dell’anno nuovo, attraverso cui ci si augura buona sorte e ricchezza per i dodici mesi a venire. In Italia variano a seconda delle tradizioni regionali e hanno spesso a che fare anche con la numerologia: in Valle d’Aosta e nelle Marche l’usanza vuole che allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre, seguendo i rintocchi della campana, si mangino dodici (come i mesi dell’anno) acini d’uva – proprio come in Spagna e in altre regioni del Centro Italia – ma che sia rigorosamente nera. Anche il melograno, emblema di fertilità e prosperità per via dei tanti chicchi, è considerato di buon augurio in molte regioni, come pure la frutta secca che dovrebbe comparire sulle tavole italiane del 31 dicembre in almeno sette varietà (in Francia arrivano a tredici): noci, nocciole, mandorle, arachidi e poi uva zibibbo, fichi e datteri. In Sardegna invece, l’usanza contadina voleva che si mettessero dodici chicchi di grano su un mattone rovente: quelli che bruciavano indicavano i mesi di bel tempo a venire. E il cereale – simbolo di abbondanza – è anche ingrediente principe di su trigu cotu: grano cotto con latte e zucchero o miele, alla base della colazione del primo gennaio. L’abitudine di brindare all’anno nuovo con le bollicine – a ognuno le sue, secondo preferenza – sarebbe invece legata non solo all’eccezionalità dell’occasione ma anche al potente “botto” del tappo, capace di allontanare gli spiriti cattivi spaventandoli.
In Grecia, l’equivalente del nostro cotechino con le lenticchie è la vasilopita, o torta di San Basilio: dolce semplice ma gustoso a base di farina, uova, latte, zucchero, burro e mandorle con aggiunta di machlepi (spezia dolce) e mastika, liquore aromatizzato al mastice di Chios, o resina di lentisco. Le famiglie di religione ortodossa la condividono attorno al tavolo come augurio di buona fortuna: in particolare a chi troverà la monetina (o altro ninnolo di plastica) nascosto al suo interno. Un rituale simile è diffuso anche in Francia – ma è spostato all’Epifania, quando si mangia la dolce galette de rois al frangipane – e pure in Inghilterra, dove risale al medioevo l’abitudine di nascondere delle monetine (anticamente dei sixpence, mezzo scellino) nel tradizionale pudding natalizio a base di frutta secca. Più prosaicamente in Scozia è abitudine mangiare la Steak Pie (poderoso pasticcio di carne) la mattina del primo dell’anno: non tanto per scaramanzia quanto per sopravvivenza, visto che a quanto pare è un ottimo cibo da hangover e aiuterebbe a lasciarsi alle spalle gli eccessi della sera precedente (che da quelle parti coincide con Hogmanay, il solstizio d’inverno festeggiato in modo esuberante con botti incendiate e rotolate per strada, canti di mezzanotte e abbondanti bevute). Negli Stati Uniti, il “piatto della fortuna” è rappresentato dall’insalata di fagioli con l’occhio (black eyed peas), che simboleggiano le monete, come da noi le lenticchie. A rafforzare l’augurio, nel piatto si uniscono anche ortaggi a foglia verde (cavolo nero o broccoli) che ricordano il colore dei dollari, e il tutto viene servito insieme a del cornbread (pane di mais) dorato.
Arriviamo in Oriente, più precisamente in Giappone. Qui, un rituale antico e affascinante è quello dell’Osechi Ryori, con cui si dà avvio all’anno nuovo. I primi sette giorni sono infatti dedicati al riposo e al ricaricare le energie, anche per chi di solito si occupa della casa e della cucina. Così si prepara cibo in abbondanza per i giorni futuri sistemandolo in raffinati ojubako, contenitori laccati impilati l’uno sull’altro a scandire il passare dei giorni. Qui tornano i numeri, e in particolate il sette: la tradizione vuole infatti che le scatole siano in questo numero, e a riempirle siano sette preparazioni a base di sette ingredienti beneauguranti, o kou un. Tra questi figurano il gambero – la cui forma ricorda il simbolo dell’infinito ma pure la gobba degli anziani, emblema di longevità – e le uova di pesce, cristallino auspicio di fecondità (e ricchezza). I fagioli – in questo caso gli edamame – equivalgono anche a queste latitudini a soldi e prosperità, mentre non può mancare la ricciola: pesce pregiato, soprattutto nelle pezzature più grandi, considerato portatore di promozioni e successo sul lavoro. Simbologia simile ha il baccalà, pesce essiccato popolare anche in Giappone che, bagnato nell’ammollo, raddoppia il suo peso ed è dunque simbolo di abbondanza. Ricorda il colore dell’oro il profumato kumquat, o mandarino orientale, la cui “pelle” è liscia e senza rughe. E infine, il granchio: con le sue chele, chiama la felicità e sblocca le energie positive, facendole girare.
L’Osechi Ryori ha decisamente più appeal della nostra – pur buonissima – “cucina degli avanzi”. Se volete averne un assaggio senza far tanta fatica in cucina, a Roma il ristorante Nakai (inaugurato nell’aprile 2022 a due passi da San Pietro) propone per la sera del 31 un menu beneaugurante ispirato proprio a questa tradizione, interpretata dallo chef Koji Nakai – nato a Kobe 38 anni fa, di cui molti ormai trascorsi in Italia ma le cui basi gastronomiche affondano nella cucina del ristorante dei nonni a Kyoto – con qualche omaggio alla sua nuova patria, come accade spesso nella intelligente fusione e armonizzazione tra le due culture che contraddistingue la sua cucina (vedi la “carbonara giapponese” con spaghetti, uova di merluzzo e pancetta, o il fiore di zucca in tempura ripieno di crema cacio e pepe).
Ecco allora, oltre al classico sushi e ad altri piatti di mare e di terra, portate come il ceviche di ricciola con edamame e kumquat, la squisita crocchetta cremosa di baccalà ricoperta di panko e il salmone marinato con uova di salmone – mentre l’astice sostituirà il granchio nel soffice bao cotto al vapore con tonno in panko e insalata di cavolo – per salutare il 2023 (anno de Coniglio secondo lo zodiaco cinese osservato anche in Giappone) come si deve. «Il menu di Capodanno è dedicato ai miei ricordi d’infanzia. – spiega lo chef, fondatore del locale che porta il suo nome insieme ai soci Luca Salari e Cristina Longobucco – Il 31 dicembre era il giorno più impegnativo dell’anno al ristorante dei miei nonni, tutti andavamo ad aiutare in cucina ma nervosismo e stanchezza si facevano sentire. Il giorno dopo però, riuniti attorno alle oju, ci rasserenavamo e ci scambiavamo gli auguri: per me questo è un esempio del potere che ha il cibo di dispensare pace e felicità e sono contento di portarlo in Italia».