Pensiamo all’Oltrepò Pavese e già la mente lo associa a un’isola, periferico triangolo di Lombardia incastonato tra Piemonte, Liguria ed Emilia-Romagna, con la costa più lunga bagnata dal fiume e il vertice basso che s’incunea tra le verdi onde d’Appennino. È terra difficile da replicare in parole, forse anche in pittura; vallate e colline si scontrano tracciando curve sinuose e ripidi pendii, attraversati dal 45° parallelo e forgiati da importanti escursioni termiche, baciati dal vento che sa di mare. Suoli variegati e generosi, altrettanto diversificati, o offrono invidiabili opportunità a chi coltiva la vite per una produzione notevole sia per quantità (si tratta della terza area d’Italia in merito a vini certificati) che per varietà. Proprio quest’offerta ampia fa la forza del distretto e ne tratteggia un limite, specie per chi ossessivamente cerca un’identità laddove «identità è anche non averne una», come suggeriscono certi indigeni innamorati della propria terra. Pinot nero in intriganti versioni rosse ma soprattutto come eccelsa base spumante, quindi bonarda frizzante da uva croatina e ricette autoctone che con gli stessi ingredienti conducono a risultati opposti, si veda il potentissimo buttafuoco al cospetto dell’esile e dolce sangue di Giuda. E ancora varietà a bacca nera, bianca, una promiscuità di interpretazioni che spesso raccontano il piacere del consumatore senza incidere sulla storia del comprensorio. In tutto ciò si può seguire la vena di marna gessosa che attraversa comuni come Calvignano, Montalto Pavese, Oliva Gessi, Mornico Losana, propaggini di Casteggio e Rocca de’ Giorgi, per delimitare un’isola nell’isola in cui la voce più seducente ha accento germanico, qualora non bastassero le inflessioni ascoltate finora.
Stavolta a parlare è il riesling, vitigno principe dei fiumi del nord, l’icona della Mosella e del Rheingau (ma anche di Alsazia e Wachau, in diverse declinazioni), ago di quella bilancia che intende esaltare sia frutto che mineralità, acidità, dolcezza, graffi di pietra, soffio di grafite e sbuffo di idrocarburi che tanto ammaliano gli appassionati. Una personalità schiva e appartata quella del riesling renano, che si direbbe elitario, ieratico, mai esuberante ma spesso rivelatore, intollerante al trucco e all’artificio: poco incline al viaggio, ben si è ambientato in questo anomalo lembo lombardo «quale regalo della dominazione austriaca», come giustamente ricorda Carlo Veronese, direttore del Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese. «Abbiamo la fortuna di coltivare molte uve autoctone affiancate da altre che definiamo storiche, come pinot nero e riesling renano. Questo ci dà uno dei bianchi più importanti al mondo, di gran fascino anche per il visitatore: produrlo ad alti livelli è un vanto, come lo sono le aziende che ne indirizzano lo stile», e che è un piacere andare a incontrare. «Qui inizialmente si trattava solo riesling italico, più facile e produttivo — ricorda Daniele Zangelmi della Tenuta Isimbarda in Santa Giuletta, pendii assolati sul margine nord-occidentale della suddetta zona — e anche il nobile renano». Una varietà molto diversa, «che al suo arrivo venne lavorata come i bianchi più comuni». Proprio Isimbarda, 35 ettari in conduzione biologica, avviò un percorso qualitativo «dalla produzione alla comunicazione, consapevoli di avere a che fare con un grande vino». Nella loro storica vigna Martina dimorano «barbatelle di origine alsaziana che offrono risultati incredibili, per un progetto che ha fatto da apripista», mentre si vanno impiantando altri cloni provenienti dalla Mosella. «Qui abbiamo un clima più caldo ma il terreno è sciolto, marnoso, con un’elevata componente calcarea. Le notti fresche permettono di conservare l’aromaticità e la vinificazione a basse temperature esalta le caratteristiche varietali». Il cru di Isimbarda si chiama Le Fleur, proviene dalla fascia più alta del vigneto e cerca «verticalità e acidità: produciamo vini secchi, non marmellate».
Ripercorrendo la storia del riesling renano in Oltrepò troviamo la figura di Vincenzo Comi: negli anni 70 già consapevole del palcoscenico che poteva offrirgli in Travaglino, «viaggiò in Germania per capire, studiare, importare cloni», come racconta la nipote Cristina Cerri, oggi al timone di questa meravigliosa realtà con base in un monastero medievale a Calvignano, 400 ettari con 12 cascine e «un universo di emozioni, per quella che da piccola era la mia casa di campagna». Nella sua Milano Cristina ha studiato economia, lavorato in finanza e nella moda, poi l’amore per «questa terra incontaminata, anche umanamente», le ha fatto affinare il progetto che rivalorizza Travaglino e ridisegna la sua vita. «Suoli bianchi, gessosi, offrono un riesling godibile da giovane ma che si presta alle evoluzioni». Campo della Fojada affina in acciaio sulle fecce fini, fresco e profumato ma ricco in struttura, mentre il Riserva permane in bottiglia per un anno di più e dà il suo meglio nella longevità. «Possiamo accostarli alle espressioni del Rheingau — suggerisce l’enologo Achille Bergami — profumo e struttura, complessità che evolve nel tempo, fino ai tipici sentori di petrolio e cherosene. Senz’altro è il suolo la nostra carta vincente».
Di suoli parliamo anche con Luca Bellani nella sua Ca’ di Frara, sviluppata attorno a un antico mulino del Seicento in Mornico Losana, coi vigneti che si estendono in quattro comuni confinanti; tra i filari del riesling, sui pendii di Oliva Gessi, il gesso affiora e riluccica allo sguardo, «e col tempo stiamo imparando come approfittarne, capiamo dove il riesling viene meglio e come esaltarlo nella lavorazione». Le piacevoli ossessioni di Luca rispondono al nome di pinot nero e riesling renano: «L’italico è geneticamente inferiore, per concorrere vogliamo almeno il motore all’altezza degli altri». Il suo riferimento è la Mosella, da dove provengono i cloni impiantati dal 2007. «La forza è la verticalità, l’acidità da terreno minerale a dispetto di pienezza, potenza, alcolicità. È una questione di concetto», che nella proposta di Ca’ di Frara si esprime in più declinazioni, dal Riesling Etichetta Nera — viti più giovani e sorso immediato — al cru Oliva «che proviene dalla vigna più alta», croccante coi suoi richiami di pera matura. Il nuovo progetto si chiamerà Vita, «ovvero quella che ho impiegato per realizzarlo al meglio»: una versione di riesling che i tedeschi direbbero spatlese, da acini selezionati e passiti, residuo zuccherino più alto senza rinunciare alla freschezza. Non è distante l’azienda Defilippi – I Gessi, così assieme a Federico (col fratello Alessandro quinta generazione in campo) raccontiamo l’ennesimo passaggio dal riesling italico, «vitigno dal grappolo grosso, spargolo, generoso», di cui è rimasto un filare impiantato dal nonno, al renano «piccolo, compatto, più qualitativo», frontiera dello zio Fabbio (proprio con due “b”), a cui è dedicata l’etichetta aziendale. «Una ventina d’anni per affinare i processi di vinificazione, quindi dal 2010 un vino pensato per durare nel tempo», giovinezza dal frutto esuberante e affinamento che conferisce echi alsaziani. La pazienza è un tema portante, «il palato del consumatore si va affinando ma molte persone intendono ancora il vino bianco come fresco, d’annata», e dunque serve tempo anche per affermare un’idea diversa. Il Fabbio è elegante, quasi cremoso, non teme abbinamenti «dall’aperitivo in avanti, con carni bianche così come formaggi non troppo stagionati» ed è sorprendente se atteso negli anni.
Ci spostiamo a Montalto Pavese per un filotto di aziende molto interessanti, a partire dalla località Costa Gallotti dove Gabriele Marchesi conduce Marchesi di Montalto: da qui la vista è mozzafiato e abbraccia appieno i pendii della “Valle del Riesling”, questo anche il nome dell’associazione da lui ideata «dopo i viaggi in Mosella, dove il percorso vitivinicolo ha un forte interesse turistico». Laureato in psicologia e fautore dell’idea di un vino “curativo”, Gabriele ha ben chiari i confini di un’area con caratteristiche pedoclimatiche che altrove non esistono. «Lo sbalzo termico e le correnti d’aria sono essenziali per esaltare le qualità delle uve», e dalla sua passione binaria nasce il diktat aziendale che recita “solo pinot nero e riesling no limits”. Quest’ultimo è di esclusiva matrice renana e le barbatelle provengono dalla Mosella, a cui Gabriele è legato anche da un progetto che vede le sue uve unite a quelle di una realtà tedesca. «Fare riesling implica un certo modo di pensare, a partire dalla conduzione del vigneto». La vendemmia si e effettua quindi in vari passaggi, che definiscono l’ottima proposta di Marchesi di Montalto: dal primo giro nasce il Riesling Se.C., con bel frutto di pesca, acidità e salinità in equilibrio, il C.G. proviene invece da acini più grassi, il V.T. da vendemmia tardiva e il V.T.B. è un gioiellino da uva sovramatura botritizzata, dove gli echi della Mosella si fanno davvero incidenti.
Anche aziende importanti come Monsupello e La Versa, universalmente note per i successi ottenuti con gli spumanti, dedicano sforzi ed etichette al riesling, e così Conte Vistarino, più famoso per le superbe interpretazioni di pinot nero. Finigeto è invece il sogno in divenire di Aldo Dallavalle, primi approcci alla viticoltura quando era ancora bambino. Marco Terzoni è il suo braccio destro, enologo meticoloso e sicuro nel trattare la materia, anche se «ogni vendemmia aiuta ad adeguare il bagaglio. Partiamo dalla migliore uva possibile, sana e raccolta a mano, per un tesoro da valorizzare in nome di freschezza, mineralità, semplicità». Il riesling di Finigeto si chiama Spavaldo «perché lo è per sua natura, carismatico come il suo produttore», vinificato a basse temperature, lontano dall’ossigeno ma «a contatto con le fecce fini perché il vino si fa con la feccia, come dicevano i nonni»; ispirato e definito nel dettaglio, è specchio fedele della realtà in cui nasce. A neanche due chilometri di distanza, a circa 400 metri di altitudine incontriamo i filari Ca’ del Gè, dove accanto al riesling renano troneggia un bell’italico «da viti molto datate», come raccontano Sara e Carlo Padroggi, che con la sorella Stefania conducono l’azienda in una dimensione contemporanea che tiene il filo della tradizione. Qui italico significa storicità e si è convinti che se trattata a dovere, «innanzitutto domando le rese», questa varietà può regalare bevute sorprendenti. Il loro Brinà lo conferma, «proviene da vigneti di 35 anni su terreni poveri, bianchi di arenaria, ed è un vino dal frutto denso, maturo», affiancato dal Filagn Long, sempre italico 100%, coi suoi sentori di frutta esotica e mela. Nell’ampia batteria proposta dai Padroggi non manca il renano, battezzato Il Marinoni dal nome del primo proprietario del vigneto, fresco e di più intensa acidità. «Tutte queste tipologie di vino, in Oltrepò, sono il racconto della sua gente e del suo territorio». A Montecalvo Versiggia, poco fuori i confini dell’area che andiamo raccontando, i fratelli Cristian e Stefano Calatroni conducono in biologico l’omonima azienda dove fu nonno Luigi a reimpiantare il riesling negli 80. «Per anni, una volta identificati i cloni, abbiamo proceduto seguendo il modello alsaziano senza ottenere niente di riconoscibile né di longevo. Meglio interpretare ciò che ci o re il nostro territorio, ovvero sole, calore, suoli ricchi di calcare e magnesio». Il 90% del lavoro di Calatroni si fa in vigneto, la cantina prevede il solo utilizzo di acciaio. «Il riesling renano dà un’uva resistente, di per sé poco interessante, che si esalta in vinificazione gestendo temperature e lieviti, e soprattutto nel tempo con la complessità degli aromi secondari». Nel 2020 il concorso meranese Rieslingtage Naturns insignisce della medaglia d’oro il loro Campo Dottore (alla metà del Novecento il proprietario della vigna era il medico del paese), un riconoscimento che può far bene all’intero comprensorio «adesso che le nuove generazioni si confrontano, capendo il valore del collettivo». Dritto, elegante, frutto giallo gustoso cui si affiancheranno note sulfuree e di idrocarburo. «Abbiamo preso coscienza della nostra strada e parlare di vino territoriale è dovuto: dopo 40 anni i cloni hanno concluso il percorso di adattamento e rappresentano l’eccellenza di questa terra».
Tornando sulle tracce dell’italico (che copre tuttora circa 1.000 dei 1.200 ettari dedicati al riesling) a Montalto Pavese incontriamo i vini biologici e vegani de La Piotta, a Pietra de’ Giorgi il Pienosole di Scuropasso, dove Fabio Marazzi è un vero fautore della varietà, a Canneto Pavese l’Essenza firmato Francesco Maggi (50% renano e 50% italico) oltre ad altre interessantissime interpretazioni. Ancor più fuori zona e fuori dal coro è la proposta di Giacomo Barualdi col suo Castello di Stefanago, svettante su un colle incontaminato in quel di Fortunago. Viticoltura biologica senza ricorrere a lieviti, solforosa, aggiustamenti posticci, con l’idea di «accompagnare il vino a esprimere naturalmente vitigno e terroir». Il San Rocco è conseguenza di uve riesling renano, affinato in botti di acacia: originale e giustamente sapido, persistente, è anch’esso destinato a stupire nell’invecchiamento.