Un doppio fil rouge attraversa questa storia: quello del Trenino Rosso del Bernina, che dai primi del Novecento collega Tirano a St. Moritz, e quello del vino che già Mario Soldati ammetteva di bere, guarda caso, proprio in treno, perché «tra tutti i rispettabili rossi offerti dalla Compagnie Internationale des Wagons-Lits, è il solo che sia magro, scivoloso, leggero di corpo, e che, quindi, non soffre, o piuttosto soffre un po’ meno di quelli più corposi e più densi (Barolo, Chianti, ecc.) lo scuotimento continuo cui è sottoposto». Oggi, sebbene anche gli odierni Barolo e Chianti si siano fatti più esili rispetto all’epoca del Soldati, che ne scriveva nel 1968, i vini della Valtellina conservano il consueto slancio e la verticalità “gotica” mutuata da un territorio dove sono per l’appunto la perpendicolarità e la luce a deciderne l’indole e, in definitiva, la natura.
A una bottiglia di Valtellina (Sassella 1848, che in realtà era un 1884) è dedicata l’ode, barbara e omonima, di Giosuè Carducci, ma già molto prima del “poeta vate” della Valtellina scrivevano Virgilio, Plinio, Strabone e Leonardo da Vinci che già trasecolavano, come il Soldati e come oggi anche la sottoscritta, davanti alle mirabolanti stranezze di questa valle. Siamo in Lombardia, nel cuore delle Alpi, al confine con la Svizzera, nel bel mezzo di una valle abbracciata dalla catena retica e da quella orobica. Disposta in orizzontale rispetto alle montagne, cui è orientata a ovest-est, a differenza di tutte le altre che si sviluppano invece a nord-sud, la Valtellina è il regno di una perenne contesa: quella tra la luce e l’ombra. Da un lato, infatti, c’è il versante sud, esposto a nord e sempre all’oscurità, tanto che è perfino usanza, a queste latitudini, trasferirvisi d’estate poiché qui l’autoctono avveduto possiede, di norma, una seconda casa; quello a nord, invece, grazie alle vertiginose pendenze e all’esposizione al pieno meridione, vanta un irraggiamento costante e prossimo quello di Pantelleria, e difatti è tutta un’antologia di aloe, ulivi, rosmarini e fichi d’India a gremire le zone più assolate. Due mondi, insomma, si fronteggiano, contendendosi la vita e senz’altro anche la vite che, però, dimora solo a nord dove, s’è detto, con l’esposizione a mezzogiorno, prospera assieme alla macchia mediterranea. Dall’altra parte invece, sulle Orobie, la latitanza del sole ricama un ordito di fitti boschi e funghi, castagne e, complice la scarsa antropizzazione, una trama popolata di galli cedroni, picchi neri e aquile reali. Sul versante opposto, quello delle Alpi Retiche, l’intero comprensorio vitato consta di 820 ettari e oltre 2.500 chilometri di muretti a secco che disegnano non solo quel “Paesaggio Storico Rurale” che ha valso loro la tutela Unesco dal 2018, ma anche un rapporto, quello tra la roccia e la vite, fatto di mutua assistenza e reciproca resistenza: un trattenersi a vicenda rispetto alla seduzione della gravità, come ben sanno Pierpaolo di Franco e Davide Fasolini, in arte Birba e Faso, dell’azienda Dirupi: con minuzia, nel tempo, hanno recuperato piccoli vigneti in oltre venti diverse zone, spesso anche molto anziani e sempre a strapiombo sulla roccia.
Altra limitazione imposta da questo straordinario territorio è quella, e non di poco rilievo, riguardante i trattamenti: pare, infatti, che gli stessi vincoli imposti dal biologico non siano del tutto applicabili a causa dei tempi di reazione, sempre troppo lunghi rispetto alle finestre imposte dal disciplinare. Colpa e merito, al contempo, di questo luogo impervio, che detta le sue regole anche alle aziende più grandi, come fa con Nino Negri, che qui amministra un patrimonio vitato di 35 ettari e dal 1897 attualizza con immutato rigore quella massima gattopardiana che vuole che tutto cambi affinché tutto resti com’è. È da Nino Negri che apprendiamo, per esempio, che in tutta la Valtellina ai trattamenti chimici si preferiscono escamotage di ordine fisico come il conetto “elisabettiano” che, apposto sul ceppo della vite, impedisce a un parassita come la nottua di risalire dal terreno per mangiare i germogli. Una scelta empirica laboriosa, certo, ma senz’altro più etica rispetto a qualunque intervento chimico, che trova anche in Mamete Prevostini uno dei suoi più strenui sostenitori. Non solo nei 26 ettari di vigneti terrazzati ma anche in cantina, il risoluto Mamete agisce in ottemperanza ai principi essenziali per esaudire un unico imperativo: preservare la freschezza del frutto, figlio di questo ecosistema alpino. Quanto al clima, secchissimo, si tratta forse dell’ultima tra le peculiarità del territorio e, per estensione, della vitivinicoltura valtellinese: qui pure la Breva, vento che spira salendo dal lago di Como, si asciuga progressivamente man mano che entra in valle; si capirà, dunque, come la piovosità sia molto scarsa, eccezion fatta per il periodo estivo, quando i repentini sbalzi termici tra giorno e notte innescano temporali violentissimi la cui acqua risulta provvidenziale per umettare l’apparato radicale della vite che, grazie al sostrato impenetrabile dello scisto, si propaga solo superficialmente. Ebbene è curioso come tutta questa combinazione di elementi, che puntualmente si riverberano nei vini con eloquenza straordinaria, sia di fatto merito di un agone al contempo metaforico e letterale. Parliamo della pressione, antichissima e sempiterna, della placca africana su quella europea il cui esito è, tra gli altri, l’affioramento di una faglia di roccia madre perfettamente visibile, a occhio nudo, presso il Castello di Grumello, sulle cui pendici dimorano le viti di nebbiolo o, pardon, chiavennasca, della sottozona omonima. Lo si vede già dalla città di Sondrio, il castello arroccato, con le pendici zigrinate dai filari: uno zoccolo compatto, con pendenze impervie, altitudini fino ai 600 metri e affioranti speroni di roccia. Circa 80 sono i suoi ettari vitati, per un mosaico di esposizioni e altimetrie che impone una suddivisione ulteriore tra Ca’ Rossa, Ca’ Bianca e Sant’Antonio, e due zone superiori, Dossi Salati e Prudenze. Prima di Grumello, però, e volendo seguire l’orientamento naturale della valle da ovest a est, s’incontra la sottozona di Maroggia: l’area, più giovane, consta di 25 ettari terrazzati e pendenze considerevoli, con suddivisioni interne determinate — udite udite — dall’inclinazione a sud. Si prosegue quindi, appena prima di Grumello, con la zona storica del Sassella, che mutua il nome dal Santuario della Madonna omonima, tributo ai sassi e al susseguirsi di balze di muri a secco tra gli immensi speroni di scisto: qui, se la parte occidentale si concede alle montagne e ai venti, quella orientale appare come un mosaico di fazzoletti vitati estorti a suon di picconate e col sudore della fronte alla montagna, come è anche accaduto, ma in modo ancora più impervio, all’Inferno più a est, nomen omen di una zona che, per ovvie ragioni onomastiche, s’è stampata a caratteri cubitali nell’immaginario collettivo. Guardandola da vicino, poco più di 55 frammentatissimi ettari vitati: vigneti miniati avvitati su pendenze vertiginose, dove l’esposizione a pieno sud e l’algida roccia striata di quarzo fanno sì che i raggi del sole si riverberino con un’intensità così bruciante da avergli valso il nome tanto caratteristico di Inferno, appunto, cui fa subito eco, ancora più orientale, la zona di Calvario.
E proprio Sassella, Grumello e Inferno sono le tre manifestazioni di una cantina che ha saputo mettere in bottiglia forse l’essenza più pura, finanche più cruda, della Valtellina: Ar.Pe.Pe. Qui i fratelli Pellizzatti Perego conducono 13 ettari che dell’essenza agricola e allo stesso tempo modernissima della Valtellina sono forse l’espressione più rappresentativa, per vini di vertiginoso nitore espressivo. Arriviamo dunque all’ultima sottozona del Valtellina Superiore, la Valgella: un promontorio che si inclina seguendo lo sperone roccioso per 140 ettari vitati, tra cui spicca il rinomato cru di Fracia. Qui il panorama cambia, è più aperto, inoltre è lapalissiana la presenza dell’acqua e, nella fattispecie, di una mappa di torrenti — in dialetto valgel — che si tuffano nell’Adda e solcano, dunque, terreni più profondi, percorrendo una maggiore variabilità altimetrica. Ne sanno qualcosa Angelo e i figli Luca e Matteo Sega di Barbacàn, che a San Giacomo di Teglio possiedono 7 ettari, coi cru di Söl e Piza Mej a circa 500 metri s.l.m.: nei loro vini si riverbera tutta la purezza del luogo, con le sue intemperanze, certo, ma anche coi suoi misteriosissimi equilibri. Tornando al vino, esso qui è figlio di un sistema fieramente agricolo organizzato attorno a due Docg e una Doc aventi al centro, manco a dirlo, la valorizzazione del vitigno nebbiolo, o meglio chiavennasca, per un minimo del 90%. Premesso, dunque, che le sue differenti espressività dipendono da una sofisticata eppur naturalissima combinazione di composizione del suolo, esposizione al sole, capricci del clima e vicende umane, un regolamento definisce le aree di produzione, stabilisce le rese per ettaro e il periodo di affinamento minimo, identificando, oltre che nelle succitate sottozone della Valtellina Superiore, nello Sfursat il suo vino bandiera: chiavennasca in purezza da uve lasciate ad asciugare e appassire in fruttaio, “sforzate”, appunto, ed eroiche, come questa storia tutta.
Cosa bere
Dirupi – Grumello Riserva 2017
Un filologico lavoro di recupero di vecchie parcelle, anche a pendenze estreme, caratterizza l’operato di Pierpaolo di Franco e Davide Fasolini. Molto eloquente, quest’anno, il loro Grumello Riserva ’17: tagliente ed etereo si apre, con la complicità dell’ossigeno, a generosità di frutto rosso, spezie e fiori blu. Fittissima la trama al palato, dov’è attraversato da una fresca eco officinale.
Nino Negri- Sfursat 5 Stelle 2018
Oltre 120 anni di storia e una continuità stilistica che lo ha reso un riferimento presso gli appassionati fanno di Nino Negri una della aziende caposaldo della zona, tanto che il suo 5 Stelle ha finito per essere identificato con lo Sfursat tutto. Nella versione 2018 il naso è raffinato pur nella sua stentorea intensità. Il sorso è solenne e, in una parola, interminabile.
Mamete Prevostini – Sforzato Albareda 2019
L’azienda eponima di Mamete Prevostini, prima in Lombardia e terza in Italia a ottenere la certificazione CasaClima, è anche quella che sta scrivendo in maniera più convincente, assieme a Nino Negri, la storia stilistica dello Sforzato contemporaneo. Questo Albareda ’19 è un tessuto pregiato di salienze capaci di conciliare tra loro, e chissà come, austerità e leggiadria.
Aldo Rainoldi – Inferno Riserva 2016
L’azienda, capace di misurarsi anche con persuasivi esemplari di Metodo Classico, consegna con la Riserva ’16 uno dei più straordinari Inferno mai usciti sul mercato: un vino vivo, imperioso nel giogo di intensità e struttura ma slanciato da un’acidità incantevole e di certo provvidenziale, che lo proietta verso l’infinito e, forse, anche oltre.
Ar.Pe.Pe. – Sassella Stella Retica 2017
Inconfondibile la cifra stilistica, forgiata anche dai lunghissimi tempi di affinamento in bottiglia, dei vini di Isabella, Guido ed Emanuele Pellizzatti Perego. In questo esemplare ci sono sia struttura e persistenza, lunghissima, che lirismo e leggiadria: completo ma mai condiscendente, il Sassella Stella Retica ’17 è un vino di cui si ha sempre sete.
Dove mangiare
Il Poggio – Poggiridenti (SO)
Una delle posizioni panoramiche più invidiabili della valle (in foto), piatti tipici come i chisciöi — frittelle di grano saraceno e formaggio — e tzigeüner, ovvero lo spiedo di carne magrissima di manzo marinata, arrotolata su un bastone e cotta sulla brace del camino, in sala, rendono questa tavola una delle più felici della zona.
ilpoggioristorante.it
Ristoro Castel Grumello – Montagna in Valtellina (SO)
Una stube alla maniera valtellinese: boiserie alle pareti, affacci panoramici, pergolato per la bella stagione e pizzoccheri da sogno. Sono questi gli ingredienti di uno dei luoghi più autentici della Valtellina contemporanea. Attenti solo al cuoco che — come dicono in paese — quando non “morde” confeziona manicaretti inaspettati, come l’incredibile torcione di foie gras.
ristorogrumello.com
Dove dormire
Grand Hotel della Posta – Sondrio
Dal 1862 il Grand Hotel della Posta accoglie i suoi ospiti in un’estatica dimensione tardo-ottocentesca. Siamo nel cuore di Sondrio e ci troverete una collezione d’arte a impreziosire gli interni, dalle sale da pranzo ai corridoi e così via fino alle camere, ciascuna arredata in maniera differente.
grandhoteldellaposta.eu
Wine Hotel Retici Balzi – Poggiridenti (SO)
Un piccolo wine resort, anche spa, nel cuore della Valtellina. Le camere, tutte panoramiche, consentono di esperire al meglio il vertiginoso panorama valtellinese, mentre dalla sala della colazione sarà possibile ammirare, al mattino, l’arrivo dei primi raggi di sole.
hotelreticibalzi.it
Curiosità
Le Olimpiadi Milano-Cortina 2026 saranno un’occasione importante per i vini di Valtellina: alla città di Milano, in particolare, il compito di fare leva sul suo “nebbiolo di montagna”, come l’ha affettuosamente ribattezzato il Presidente del Consorzio di Tutela dei Vini di Valtellina, Danilo Drocco.
vinidivaltellina.it