Nato come bistrot a due passi da Porta Pia, evoluto in ristorante fine dining con grande cura ai dettagli, tornato poi (in parte, e per poco) a una proposta quotidiana ma attenta prima di lasciare briglia sciolta a una coppia di cuochi-amici – Francesco Capuzzo Dolcetta e Guglielmo Chiarapini – e alla loro cucina “materica” fatta di fondi e cotture perfette, di acidità e morbidezze, in una inedita sintesi tra opulenza ed essenzialità. Per poi, con il trasferimento nel palazzetto color carta da zucchero poco distante da piazza del Popolo che ospita attualmente il ristorante, puntare molto sulle cotture primordiali – alla brace o per affumicatura, sotto la cenere o sopra i carboni – e su un bancone/chef’s table con una manciata di sedute (in aggiunta ai tavoli nella sala superiore e in terrazza, nella bella stagione) che sono diventate tra le più ambite della città.
A raccontarla così in sintesi, la storia di Marzapane potrebbe sembrare assai discontinua: e invece, anche grazie alla guida salda del patron Mario Sansone e alla sua capacità di individuare talenti e “direzioni” culinarie, a prescindere da mode e tendenze, l’insegna romana è riuscita nonostante gli avvicendamenti a tenere un’identità complessiva piuttosto nitida, incentrata sul rapporto diretto con i fornitori e su un’idea “libera” di cucina, e a confermarsi di volta in volta tra quelle dove accadono le cose più interessanti in città.
Ad avvalorare tutto ciò, c’è ora pure l’arrivo del nuovo chef del ristorante dopo la breve ma interessante parentesi con Tommaso Tonioni (probabilmente il più indicato, tra i giovani cuochi romani, a raccogliere il testimone del duo nel segno del fuoco): Antonio Altamura, pugliese di Mottola (in provincia di Taranto) per oltre un decennio all’estero, e in particolare a Parigi dove ha affiancato Iñaki Aizpitarte nel tempio della bistronomie francese – a Le Chateaubriand, ormai meno outsider di un tempo ma sempre attuale – e il romano Giovanni Passerini, da anni tra i nomi di punta della capitale. Ma pure dal basco Etxebarri, e alla bakery californiana Tartine. È stato proprio Passerini, di recente protagonista di un takeover di fuochi e braci di Marzapane per una bella serata di cucina e amicizia, a segnalare a Sansone il suo sous chef, privandosi di un collaboratore fidato ma ormai pronto a diventare “titolare”.
Così, da circa un mese Altamura ha preso possesso della cucina dopo una breve ma intensa full immersion tra aziende, produttori e artigiani che rappresentano sempre più la base fondamentale della proposta di Marzapane: dal macellaio romano Roberto Liberati al vignaiolo siciliano Calogero Caruana da cui arriva anche l’olio extravergine di Biancolilla, dal pescatore di Anzio che garantisce del pescato strepitoso ogni mattina alle farine selezionate da Gabriele Bonci, fino alle conserve e polveri di Incuso, il progetto siciliano di Pasquale Bonsignore.
Con Altamura, è atterrato in via Flaminia anche il catalano Axel Ayza Gallart – pure lui a lungo a Parigi, da Saturne a Le Clown Bar, ma con esperienze anche in Italia – che lo affiancherà ancora per un mese prima di dedicarsi a un suo progetto personale, condividendo brace e pass e inserendo nella sequenza di assaggi (in particolare quelli al bancone, dove il percorso è come fin dall’inizio estemporaneo e totalmente affidato alla cucina, al netto di intolleranze e idiosincrasie) una fetta di pâté en croûte, la cui arte fatta di sfoglia friabile e ripieno saporito e giustamente amalgamato – che si tratti di agnello, maiale, anatra o quant’altro – ha appreso dal premiatissimo traiteur parigino Lastre Sans Apostrophe.
Insieme a una brigata giovane e agguerrita, Antonio e Axel mandano in tavola piatti che hanno nell’essenzialità quasi istintuale e nella nitidezza di sapori la propria cifra. E che spesso trasmettono un’esplosione di mediterraneità che pesca nelle tradizioni regionali del Sud Italia e nei prodotti di stagione – anche quando è brevissima – ma in cui la tecnica non manca di certo, così come un po’ di allure francese. Accade ad esempio nel boccone di partenza con la focaccia di semola appena abbrustolita e condita con burro di Normandia, ricci di mare e polvere di mandarino Incuso; con la ciotola che accoglie pomodori gialli in acqua di mare, aceto affumicato, olio extravergine di Biancolilla, erbe aromatiche e i deliziosi gamberi gobbetti crudi; nella stroncatura (tipica pasta calabrese a base di farina integrale di grano duro) mantecata con burro persillé, murici e crema acida; o nella strepitosa triglia (carnosa e saporita come raramente capita) appena scottata e accompagnata da pomodori tardivi, verdure di stagione e una salsa a base di fumetto di triglia e teste di gambero, di cui si farebbe volentieri il bis. Ma pure nella pecora da allevamento biologico di Scanno, servita con alici, asparagi bianchi e ricotta del caseificio Ammano di Tragliata. Per terminare con il gelato di mandorla generosamente rivestito di zabaione allo zucchero muscovado emulsionato al momento e polvere di cacao.