Zaiyu Hasegawa

Zaiyu Hasegawa, lo chef giapponese che ama l’Italia

Una cena da Den – il premiatissimo e ambito ristorante di Tokyo – è un’esperienza capace di unire divertimento, conoscenza e grande cucina. E tra un piatto e l’altro (e nel bicchiere) spunta anche la Penisola.

Prenotare è quasi impossibile, perlomeno dall’Italia (è necessario telefonare in determinati giorni e orari, con il fuso giapponese, a partire da un mese dalla data desiderata). E una volta giunti su Gaiennishi-dori, strada laterale del distretto Jingumae, a Shibuya –mega quartiere speciale di Tokyo dove Den si è trasferito nel 2016 da Jimbocho, la zona delle librerie ancora menzionata nel dominio del sito web, dove aveva aperto nel 2007 – non è facilissimo individuare il ristorante: le vetrate sono semi-oscurate e il poco che trapela (a cominciare dai muri ricoperti dalle scritte lasciate da ospiti illustri o meno) non lascia certo immaginare che oltre la porta su cui risulta ancora il nome del precedente locale (Le Gaulois) si trovi uno dei ristoranti più ambiti e rinomati della capitale giapponese, da anni in cima alla classifica della 50 Best Asia – che nel 2022 lo aveva premiato come Best Restaurant – e con due stelle Michelin più quella verde, ampiamente meritata.

Tornando alla porta: abbandonate la consueta delicatezza nipponica e spingete forte. Una volta entrati, preparatevi a trascorrere una serata dove alta cucina e informalità, divertimento e un pizzico di eccentricità (impersonata in gran parte da Puchi jr, chihuahua a pelo lungo mascotte del ristorante che saluta gli ospiti in perfetto stile giapponese a zampe giunte) vanno insieme alla grande. Ma anche le chiacchierate con lo chef e patron Zaiyu Hasegawa – perlopiù con la traduzione di qualcuno del suo staff – che di tanto in tanto abbandona la cucina a vista su cui affaccia la gran parte dei pochi coperti del ristorante per scambiare qualche parola anche con i commensali che siedono agli altri due tavoli (ma c’è pure una graziosa e intima saletta privata sul fianco della cucina, a cui è collegata da una piccola finestra) arricchiscono la cena di spunti e curiosità che permettono di capire qualcosa di più della proposta di questo cuoco dal percorso singolare: cresciuto con le raffinate portate che la madre – geisha in un lussuoso ryotei, ristorante tradizionale dove gli uomini cucinano e le donne intrattengono gli ospiti con conversazioni colte e grande garbo – portava a casa, ha iniziato proprio lì la sua carriera in incognito, facendo l’apprendistato alla base della cucina Kaiseki.

Anche la moglie Emi ha lavorato a lungo in un ristorante tradizionale di alto livello e insieme hanno deciso di plasmare un nuovo tipo di cucina e di accoglienza che unisce la grande attenzione agli ingredienti (dalla provenienza alla stagionalità) e alla piacevolezza della sosta con una forma di convivialità più vicina a quella occidentale, più informale e a tratti irreverente, che bypassa molte delle regole del fine dining ma ne riassume al meglio l’essenza. Così oggi Zaiyu definisce la sua cucina “modern Kaiseki”, e non si fa problemi a contaminare rituali e preparazioni della tradizione giapponese con piccole provocazioni pop e incursioni in altre culture gastronomiche. A cominciare da quella italiana: se molte delle firme sui muri sono di colleghi nostrani, e il vetro che ricopre un’installazione vegetale riporta ancora il menu di un’epica serata a quattro mani con Riccardo Camanini, Hasegawa ci racconta di essere stato più volte a Udine (soprattutto in occasione dell’evento Ein Prosit) che a Kyoto, e scherza dicendo che nelle sue vene scorre Barolo, più che sangue.

Così iniziamo il percorso con un calice di Franciacorta; ma in alternativa non mancano etichette di altre nazionalità e una bella scelta di sake di varia tipologia, serviti nelle bellissime ceramiche dello studio Gladdy di Asato Ikeda, artista amico dello chef, che accompagnano anche alcuni piatti. Il menu è solo a degustazione, con un percorso di circa dieci portate che variano secondo la stagione e riproducono l’andamento del pasto rituale Kaiseki ma rivisto con originalità, e che comprendono sempre alcuni signature ormai imprescindibili. Il prezzo può dunque variare da sera a sera in base alle portate ma parte – come viene specificato anche sul sito – dai 18mila yen a persona più 10% di tasse e 10% di servizio, bevande escluse: una cifra che, grazie al cambio al momento favorevole, si aggira sui 150 euro e appare più che ragionevole per l’esperienza.

Si parte con il Monaka, dolcetto tradizionale giapponese in cui l’involucro sottile e croccante – con tanto di incarto – è in questo caso farcito con foie gras marinato al miso, kumquat e cetriolo in agrodolce. Arriva poi una ciotola con un brodo (dashi) denso e gustoso che accoglie un parallelepipedo dorato di cui veniamo invitati a indovinare gli ingredienti: simile per alcuni versi a un grande e morbido boccone di crema fritta (o a una mozzarella in carrozza) è in realtà a base di asparago bianco, latte e amido di kuzu, radice di una pianta rampicante.

Hasagawa rivede poi l’Oshinogi – una delle prime portate del pasto Kaiseki, che di solito prevede una piccola porzione di riso inteso come base per preparare lo stomaco a bere sake o vino, che con il tempo hanno sostituito il tè – a modo suo. Vale a dire levando ogni patina di seriosità e formalità con il più provocatorio e noto dei suoi piatti: il Dentucky Fried Chicken è una coscia di pollo farcita con lo sticky rice giapponese saltato con erbe selvatiche di montagna (Sansai) e miso, fritta e servita in una box di cartone come quelle per il takeaway da fast food, con tanto di faccia dello chef al posto di quella del famoso colonnello della catena a stelle e strisce. Da mangiare con le mani e godersi fino in fondo, domandandosi senza risposta come siano riusciti a riempire la coscia per poi ricomporla in maniera perfetta.

La portata di sashimi è rappresentata, nel nostro caso, dal delizioso Budai (una specie di pesce pappagallo del Pacifico) fatto maturare per cinque giorni e servito con salsa di soia, wasabi e una densa salsa di alga nori e aceto. Mentre a seguire arriva la trota giapponese (Masu) affumicata e grigliata fino ad avere una pelle super croccante, accompagnata da erbe selvatiche di montagna e sansho pepper. Ma è soprattutto la DEN salad, tra i signature dello chef, a raccontare il suo lavoro di ricerca sulle sfumature vegetali dei differenti ortaggi – oltre venti tipologie, di cui alcune crude e altre fritte, grigliate, messe in conserva o altro per dare consistenze e nuance aromatiche diverse, talvolta intagliate come la faccina che sorride fatta di carota sottaceto – nel cui condimento rientrano anche le formiche.

Alcune delle stesse verdure, tra cui le squisite teste di violino (la punta di una varietà di felce), sono alla base della zuppa con germogli di bambù e sottili fette di carne di manzo pregiata. Ma sono i due “risotti” a conquistarci: prima quello con Hotaruika (calamari lucciola, simili ai nostri calamaretti spillo) e Hanasansyo, i rari fiori di Sansho – più note le bacche, che vengono messe in conserva o essiccate e macinate come “pepe” – che hanno una brevissima fioritura primaverile e un sapore insieme intenso e delicato, balsamico e citrico, ricco di freschezza ed eleganza. Ingrediente prezioso, torna anche nel secondo riso con Warabi (altra felce primaverile di montagna, usata anche per farne un tradizionale dolcetto mochi) e brodo d’anatra, che lo chef ci serve a tavola dalla pentola in coccio, simile a un orcio, in cui lo ha cotto ottenendo una parte morbida e una croccante che ricorda in qualche modo il nostrano riso al salto. La chiusura della cena non è meno sorprendente, con il sorbetto di fichi neri e castagne che riesce a non essere stucchevole ma fresco e piacevolissimo.

Maggiori informazioni

Den
Shibuya City, Jingumae, 2 Chome−3−18
Tokyo
jimbochoden.com

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