Quando, nel 2019, il romano Andrea Antonini è diventato l’executive chef del ristorante Imàgo, confermando in soli sei mesi la stella Michelin in cima allo storico hotel Hassler affacciato su uno degli scorci più belli di Roma, aveva solo 28 anni. Eppure, il suo curriculum – che parte da un’esperienza come lavapiatti in una mensa e arriva al Piazza Duomo di Errico Crippa, passando pure per l’Australia, per importanti nomi della ristorazione romana come Metamorfosi e Giuda Ballerino, e per due pezzi da novanta di quella spagnola, Quique Dacosta e El Celler de Can Roca – era già più che interessante. Classe 1991, braccia tatuate e modi schietti, a prima vista lo si immaginerebbe più alla guida di un bistrot dall’approccio “selvaggio e naturale” – di quelli che vanno per la maggiore in questo momento nella Capitale – che delle cucine di uno dei ristoranti più blasonati della città, su cui tanto ha puntato e continua a farlo la famiglia Wirth.
Unendo rigore langarolo e giocosità iberica, grande tecnica e veracità romana e laziale, Antonini – con il contributo di una brigata under 30, e anche grazie al tempo extra concesso dalle pause pandemiche – è riuscito a raggiungere l’obiettivo che si era posto: rendere l’Imàgo più contemporaneo, attraendo tanto i turisti e gli ospiti dell’hotel quanto i romani, una volta tanto accomunati dagli stessi desideri da esaudire: godersi la vista unica ma anche piatti che sanno raccontare Roma e l’Italia giocando tra classicità e originalità, per un’esperienza gastronomicamente appagante ma anche divertente. In questo lo ha seguito anche la sala, che si è ridotta nei coperti e rinnovata negli arredi e ancora lo farà durante la pausa estiva – dal 13 al 28 agosto – guadagnando un po’ di allure contemporanea che rende maggiore giustizia al panorama e ai piatti. E pure il team che sa muoversi in sintonia con la cucina affiancando discrezione e disciplina a empatia e vitalità, saldamente guidato da Marco Amato affiancato da Angelo Cecere e dal sommelier Alessio Bricoli (responsabile della nuova cantina di design che annovera etichette dai 50 euro ai 27mila: quel che si dice per tutte le tasche, almeno in ristoranti del genere).
Così nel corso di cinque anni Andrea Antonini ha presentato nove menu – uno ogni sei mesi, e il prossimo autunno il Dieci porterà qualche sorpresa come si conviene alla cifra –, via via più identitari e sempre più incentrati su ingredienti di stagione, spesso locali o selezionati personalmente, e dalle presentazioni curatissime (quelle dei piatti ma anche quella del menu, il cui aspetto grafico viene supervisionato dallo stesso chef). Non rinunciando però ai capisaldi del fine dining internazionale, come racconta Antonini senza paura di risultare anacronistico: almeno uno tra ostriche, foie gras, tartufo, aragosta o caviale nei suoi menu non manca mai. Come nell’Aragosta alla catalana del menu Imago Nove che racconta la gioia dell’estate, con piatti che alternano creatività e sorpresa – come l’eccellente Calamaro alla milanese, che rivede la tradizionale ricetta meneghina sostituendo il calamaro al riso e aggiungendo una nota (e burrosità) marina alla cremosità del piatto originale – ad altri dove prevale la “scuola”, come l’Abbacchio con patate ed erbe, che si rivela più interessante nel piatto di accompagnamento che spesso arrivano in tavola con le patate: una splendida quenelle di puré à la Robuchon su un crostino, affiancato dall’intensa ma elegante salsa di coratella.
Ma c’è spazio anche per l’interessante reinterpretazione di un classico dal sapore vintage dell’hôtellerie – il filetto al pepe verde – dove la proteina viene sostituita da un succoso scampo cotto e nappato con burro noisette, impanato con pane tostato al pepe verde e servito su una delicata maionese al pepe verde e olio di senape, completato al tavolo con un fondo bruno di manzo e infusione di teste di scampi e Brandy, in un bel gioco “mare e monti”. Così come per il Manzo crudo “garofolato” – che riprende un altro piatto della “Roma sparita” in chiave estiva e alleggerita – o per i Ravioli di granchio, pancetta, limone e mandorle, per cui Antonini utilizza i piccoli granchi di sabbia solitamente negletti dall’alta cucina (anche perché laboriosi da lavorare per estrarne la scarsa polpa) ma ricchi di sapore, i cui carapaci sono anche usati per preparare l’elegante “tè” con mandorle e aneto che completa il piatto al tavolo.
Le parti più intriganti della cena, però, restano il lungo avvio e la chiusura. Nel primo caso lo chef gioca felicemente con i cliché dell’aperitivo all’italiana, tutto “fatto in casa”: dalle squisite chips di pelle di pollo in busta con il “crodino” al panino con la porchetta e le deliziose coppiette, versione insolitamente morbida e gustosa della carne secca tipica laziale, ma pure con un mini spicchio di “pizza” di meringa servito nel cartone e con i cannelloni di pasta fillo al pomodoro con ragù misto, crema di pomodoro e aria di Parmigiano. Mentre nel secondo, dopo il notevole carrello dei formaggi che ai grandi nomi dell’arte casearia italiana e francese sostituisce piccolissime produzioni artigianali scovate nelle campagne del Belpaese, dal menu Imago Nove c’è la mano del pastry chef e boulanger Luca Villa, voluto con forza dallo stesso Antonini per affiancare la brigata di cucina con la sua raffinata arte pasticcera.
Il ventottenne lombardo, passato anche lui dai Roca (ma pure dai Cerea e all’Antica Corona Reale), è artefice di dessert elaborati, come la scenografica Rosa, panna e fragoline con cui ha esaudito la richiesta dello chef di realizzare un dolce fresco ed estivo che sapesse anche di ricordi d’infanzia: così la morbida dacquoise è sormontata da un semifreddo di panna e vaniglia e da petali di meringa pazientemente montati a ricreare un fiore, mentre attorno c’è il gel di aceto di fragoline a smorzarne la dolcezza. E non è ancora finita: la piccola pasticceria, anziché essere servita nel piatto da condividere, arriva in un ulteriore carrello multipiano con i grandi classici della pasticceria italiana in versione mignon, ma pure cioccolatini e frutta fresca, da cui attingere senza ritegno, soddisfacendo la propria golosità come in una sorta di luna park del gusto. Elitario certo (il menu degustazione costa 210 euro a persona, bevande escluse) ma allo stesso tempo audacemente “popolare”.