spighe di grano, Arteagricola

Il grano futuro di Arteagricola

La storia dell'impresa made in Puglia che traccia l'intero ciclo produttivo di pasta, semole e farine – dal seme al packaging – adesso ispira anche gli chef.

Il mio viaggio verso un campo di grano che ha il sapore della verità inizia in un supermercato, alla cassa, in coda per pagare. Come spesso mi accade, scruto sfacciatamente nel carrello degli altri, cercando di intuirne usi e costumi alimentari. Non mi limito, però, a scansionare la spesa del prossimo, ma mi sbilancio – ampliando il mio sguardo all’outfit – a capire chi mangia cosa. Nel carrello più vicino, dove il mio occhio indagatore può tuffarsi senza destare sospetti, la pasta è di quelle che sbandierano la lunga essicazione ma non i natali del grano utilizzato; la farina è di grano tenero, 00; lo zucchero è bianco, semolato; i biscotti quelli che annunciano urbi et orbi la presenza di farine integrali, ma non evidenziano con corpo tipografico adeguato le percentuali; il pane – ai cereali, integrale, di segale, ai semi – è rigorosamente imbustato e trattato con alcol etilico per durare a lungo. Spuntano qua e là, come tentativi di esorcizzare i sensi di colpa, il formaggio light, il latte delattosato, il tonno senza olio e lo yogurt zero grassi, frutti di una logica perversa per cui il “senza” diventa un plus. Sollevo lo sguardo e controllo censo e ceto. Se l’outfit denuncia idee molto chiare, meno lo sono quelle su come nutrirsi in maniera sana e responsabile. Del resto, anche ad aver maturato una certa consapevolezza in materia, l’offerta è sconfortante. Scartata l’idea di immolare buona parte del proprio reddito alla causa bio, l’alternativa è cercare il buono che c’è leggendo attentamente le etichette, individuando origine e rete di distribuzione dei prodotti, andando – potendoselo permettere – alla fonte: in campagna, nei pascoli, nei campi di grano a guardare con i propri occhi e capire. In alternativa, a soccorrerci, c’è una quota sempre più ampia di ristorazione che fa della qualità e del controllo della filiera della materia prima utilizzata in cucina la propria missione. Sceglie carni da animali da pascolo grass fed; verdure e frutta da piccoli coltivatori e dai propri orti; pesci d’amo o da impianti di acquacoltura sostenibili; oli extravergini monocultivar da areali protetti e realizza pani e paste fresche fatte in casa con farine poco raffinate e possibilmente da grani antichi.

Il caso Borgo Egnazia

Tra le cucine più sensibili ai temi della salute e della tracciabilità, quella dei ristoranti di Borgo Egnazia, in Puglia, ha un significato che va al di là del mero ambito gastronomico. In quella che è certamente l’enclave ricettiva regionale più esclusiva e più ambita da una clientela internazionale sempre più attenta ed esigente in termini di standard qualitativi, l’offerta gastronomica – a partire dalle ricca colazione mattutina sino alla cena nei cinque ristoranti della struttura – ha un duplice obiettivo: far rivivere i sapori di una volta attraverso nuove e più ardite forme e, al tempo stesso, promuovere l’anima più autentica della Puglia rurale sposando il coraggio e le sfide dei piccoli produttori locali. Un tema, quest’ultimo, particolarmente caro a Domingo Schingaro, executive chef del Borgo che, con la complicità del suo pastry chef e sodale Tiziano Mita e l’appoggio incondizionato della proprietà sulla ricerca spasmodica del meglio del patrimonio orto-frutticolo, caseario, ittico e zootecnico regionale ha fondato la sua filosofia di cucina creando al contempo i presupposti di un cambiamento di rotta nella ristorazione pugliese. Non più storytelling, ma concretezza, proposte in carta che sono precise espressioni valoriali dell’alta qualità delle produzioni locali e nomi e cognomi di chi, con identità precise e poste importanti in gioco, sta lentamente affrancando la terra da pratiche colturali sbagliate, sfruttamenti intensivi e alterazione dei suoi naturali cicli produttivi.

Tra gli artefici di un significativo cambiamento di rotta in questo senso, coinvolti a vario titolo da Domingo nei suoi progetti gastronomici, esemplare è il modello imprenditoriale di Arteagricola, azienda agricola pugliese della provincia di Foggia che dal 2007 opera a ridosso delle Saline di Margherita di Savoia, in quel Tavoliere una volta granaio d’Italia e poi terra progressivamente scippata alla sua vocazione per favorire una industrializzazione che ha impoverito i campi e incrementato l’esodo umano. L’azienda occupa oggi parte dei lotti una volta di proprietà di Raffaele Cappelli, deputato del Regno d’Italia, dati in concessione nel 1907 al genetista Nazareno Strampelli che dopo sette anni di studi, incrociando per impollinazione naturale due varietà di grano – il Rieti, dal nome della città nella cui Stazione Sperimentale di Granicoltura lo aveva selezionato prima di trasferirsi in Puglia, e il Rhetifah, grano del Nord Africa molto resistente ai climi aridi e siccitosi – rilascia la varietà di grano duro Senatore Cappelli – dal nome del deputato diventato nel frattempo senatore – che ebbe un periodo di grande successo nel 1920 e venne diffusamente utilizzato sino al 1975 come il grano duro per eccellenza, per poi vedere scemare drasticamente la sua diffusione sino al 1991, quando ne fu gradualmente ripreso l’uso.

Dal seme al packaging

La scelta di Arteagricola di operare su quegli stessi suoli e adoperare la stessa varietà di grano duro di allora per la propria pasta è una dichiarazione di appartenenza: alle radici, alla storia, alla propria terra, ma l’intero ciclo produttivo – dal seme al packaging – è stato concepito sin dagli esordi in maniera contemporanea. Dalla rigenerazione di suoli depauperati dallo sfruttamento intensivo al confezionamento dei prodotti – pasta, semole e farine bio – sui quali un QR code permette di tracciarli a ritroso sino al chicco progenitore e al lotto che l’ha generato, passando per una completa autonomia dal punto di vista energetico, gli obiettivi sono il rispetto del consumatore e la coerenza della filosofia produttiva.

L’atto di fondazione dell’azienda è datato 2007, risultato di una serie di studi preliminari e ricerche iniziate almeno un lustro prima. Il primo raccolto è del 2008. Nel 2011 viene realizzato l’impianto di biogas da 15.000 kW al giorno che sfrutta tutti gli scarti della raccolta e della lavorazione del grano assicurando la totale autosufficienza energetica dell’azienda. Nel 2015 vengono messi a punto tutti i sistemi per la valorizzazione dei semi e nel 2017 viene avviato il pastificio, completamento ideale di un ciclo “farm to fork” dalla terra al consumatore. Sin da subito lo studio delle teorie di rigenerazione agro-ecologica dei suoli dell’Institut de l’Agriculture Durable e l’influenza ispirativa di Rattan Lal – scienziato americano di origine indiana, vincitore del prestigioso World Food Prize nel 2020 e teorizzatore della biofertilizzazione dei suoli – si rivelano illuminanti, fornendo lo stimolo all’adozione di strumenti operativi per prendersi cura di una porzione di pianeta – la propria terra – attraverso tecniche agricole a impatto zero in grado non solo di far crescere il grano dove non cresceva più niente, ma di intervenire attivamente sulla crisi ambientale. Pratiche come la semina su sodo, la trinciatura, il diserbo naturale, il rispetto della biodiversità, la coltivazione esclusiva di semi autoctoni, il rilascio sul terreno dei residui colturali come fertilizzanti, la messa a dimora di piante in grado di catturare carbonio organico garantendo maggiori indici di produttività e la rotazione delle colture diventando così punti di un manifesto programmatico che ha a cuore la longevità della terra e la qualità dei suoi frutti.

«Esiste una vita del grano – afferma Massimo Borrelli, avvocato con un debole per l’artigianalità dei processi produttivi e una passione smisurata per la sua terra, CEO e ideatore insieme a Savino Del Vecchio di Arteagricola –, fatta di fasi fisiologiche. L’impollinazione, la crescita e l’essicazione della pianta che, morendo, genera la vita di un prodotto per l’alimentazione, sono un atto di amore della terra nei nostri confronti. È per restituire questo dono che ci prendiamo cura delle piante assicurando loro le migliori condizioni vegetative, la cui qualità conferisce al prodotto finale quella salubrità fondamentale per evitare l’insorgenza, nel consumatore, di patologie legate alla standardizzazione dei processi di maturazione della pianta che caratterizza oggi la produzione di massa dei prodotti cerealicoli e dei suoi derivati».
La sensazione che queste parole stiano dando risposte certe alle mie preoccupazioni e considerazioni sul carrello della spesa del mio prossimo da cui sono partito nel frattempo si acuisce. «Marco Silano, ricercatore presso l’Istituto Superiore di Sanità – continua Borrelli – per dieci anni ha studiato una serie di grani antichi individuandovi un peptide, una catena di almeno dieci aminoacidi capace di proteggere i villi intestinali dall’azione infiammatoria del glutine. Di questo peptide c’è traccia nei grani antichi – di cui il Senatore Cappelli fa parte a pieno titolo – ma non in quelli moderni, e questo ha generato il paradosso per cui si è arrivati a pensare che il grano fa male e che a far guarire ci pensa la medicina, quando invece basterebbe capire che tornare, come sta accadendo da qualche anno a questa parte, alla biodiversità dei grani antichi – dalle varietà siciliane Tumminia, Perciasacchi e Russello alle varie “Saragolle” diffuse in tutta Italia, solo per nominarne alcune – con il loro impareggiabile bagaglio di proprietà nutrizionali e di fragranze d’antan, significa assicurare gusto, salute e sicurezza al consumatore».

Il pane agricolo

Ma se la pasta è il core business, la tensione innovativa e pionieristica di Arteagricola è convogliata da tempo anche su altri fronti, tra cui quello di un Progetto Agricolo che sta coinvolgendo giovani artigiani del mondo della lievitazione: panificatori, pizzaioli e pasticceri che condividono gli stessi principi ispiratori di Arteagricola e si impegnano a realizzare solo ed esclusivamente prodotti buoni, sani, sostenibili e tramandabili, cioè in grado di restituire agli altri sia il modello virtuoso così creato, sia la completa trasparenza dei loro cicli e metodi produttivi.
Il sospetto che si tratti dell’ennesimo caso di valori annunciati e poi puntualmente disattesi, è subito fugato dalla fama e dalla determinazione di chi per primo ha creduto a questa condivisione di intenti tra impresa e artigianato. Si tratta del giovane Mauro Petronella, quinta generazione di panificatori altamurani, artigiano dei lievitati in irresistibile ascesa che a suon di pagnotte di Cappelli, farro Monococco e Dicocco, Solina, Lino e Granantico e nel segno di “Be who you are”, suo slogan identitario, sta sfidando sancta sanctorum della lievitazione tradizionale come il pane, omonimo, della sua città, non contemplato dalla sua produzione. Se pensiamo a lui, a Domingo Schingaro, a Tiziano Mita, ad Arteagricola e al manipolo di visionari che ci hanno creduto e l’hanno fatta crescere senza compromessi, il vicino di fila alla cassa del supermercato diventa improvvisamente più prossimo e la voglia di raccontargli del mio viaggio verso un campo di grano con il sapore della verità, impellente.  

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