Ômina in latino significa “buoni presagi”, mentre il termine Romana omaggia la storia che identifica il territorio dei Castelli Romani, abitato dagli etruschi e dai sabini che, già all’epoca, producevano e consumavano vino. Due concetti che delineano la visione dell’azienda fondata nel 2007 a Velletri da Anton Börner, imprenditore di origine tedesca che insieme alla moglie Anna Maria Boella ha colto le potenzialità di investire in una zona a forte vocazione vinicola, a lungo sottovalutata. Oggi a guidare la cantina con suoi 82 ettari – di cui 60 di vigneti e 10 di uliveto – c’è la figlia Katharina Börner, che ci racconta il sogno imprenditoriale di Ômina Romana.
Cosa ha spinto la vostra famiglia a investire in Italia e specialmente nel Lazio?
«I miei genitori vivono a Roma da anni. Mio padre è un appassionato di storia e archeologia e si è messo a fare ricerche per investire in un progetto che valorizzasse l’antico terroir della regione con uno sguardo più ampio e internazionale rispetto alle realtà già esistenti».
Come mai la scelta di piantare vitigni prettamente di taglio bordolese?
«È stata determinata dopo un’indagine di zonazione sui vitigni più adatti a questi suoli di origine vulcanica. Dopo gli esperimenti condotti su 18 varietà di uve diverse, a cui si sono aggiunte le analisi del clima e delle temperature con l’aiuto dell’Università di Geisenheim, abbiamo riscontrato che acini di merlot e cabernet franc potessero dare i risultati migliori. Una decisione che ci ha anche aiutato nella comunicazione delle nostre etichette, poiché sono delle varietà internazionali e quindi più facili da vendere».
Che tipo di pratiche utilizzate in vigna?
«Non siamo un’azienda biologica e non seguiamo i dettami della biodinamica, ma siamo comunque attenti alla qualità in ogni fase della vinificazione; anzi per certi aspetti abbiamo delle metodologie più severe rispetto ai disciplinari biologici, supportate da una filosofia sostenibile e nei prossimi mesi potremmo ricevere la certificazione Equalitas (che affronta la sostenibilità secondo i tre pilastri economico, sociale e ambientale, nda), diventando così l’unica cantina con tale riconoscimento nel Lazio».
Avete una linea di bottiglie sia monovarietali sia di cuvée, qual è la tipologia che esprime al meglio la vostra filosofia?
«Sono convinta che entrambe la rispecchino: i monovarietali sicuramente rappresentano il terroir e la qualità del vigneto, ma a volte un blend è utile per rimediare ad annate non perfette. Per esempio una delle nostre cuvée di entrata, il Diana Nemorensis I, un assemblaggio di merlot, cabernet sauvignon e franc è affascinante per la sua freschezza e bevibilità».
Ars Magna è la vostra linea premium: in cosa si distingue?
«È un progetto che abbiamo cominciato nel 2013, eravamo alla nostra terza vendemmia. In questo caso le uve vengono selezionate manualmente, devono rispettare determinati requisiti ed essere vendemmiate separatamente. È una linea dedicata ai monovarietali, a eccezione del Ceres Anesidora I, un connubio avvincente di cabernet franc e cabernet sauvignon».
Obiettivi per il 2024?
«Consolidare la nostra realtà sul mercato italiano, con la mission di essere presenti in tutte le regioni. Poi vogliamo espanderci maggiormente all’estero: al momento siamo in Asia, mentre in Europa abbiamo un ottimo riscontro in Germania e Svizzera. Da poco ci siamo affacciati al mercato inglese».
Vino e ospitalità, un connubio sempre più vincente: siete interessati a sviluppare anche questo business?
«In futuro vorremmo creare un agriturismo di alto livello, con poche camere, per veicolare meglio la conoscenza meglio dei Castelli Romani, ma senza puntare sulla ristorazione: il vino in ogni caso rimarrà il focus principale».