Tra le tante “materie” gastronomiche, in Italia la pasta è quella che forse più di ogni altra è considerata intoccabile, e dove ogni piccola contravvenzione all’ortodossia porta con sé inevitabilmente un carico di polemiche e rimbrotti. Ma nessuno degli chef chiamati a interpretare sul palco della Sala Blu il tema della disobbedienza per la giornata dedicata alle Identità di Pasta – la quindicesima, che vede come fin dalla prima edizione la collaborazione tanto del Pastificio Felicetti quanto di Eleonora Cozzella alla conduzione – si è tirato indietro, anzi.
Come ricorda Cozzella, «sono quindici anni che Identità di Pasta è disobbediente: in questa sala è stata scotta, reidratata, frullata, pensata come contorno o dessert, ci siamo presi la libertà di declinarla in tantissimi modi. La trasgressione sta nell’avere appunto libertà e consapevolezza, nel darsi delle regole ma non quelle imposte». E Riccardo Felicetti sottolinea come anche la storia del pastificio di famiglia – nato nel 1908 in Val di Fiemme, si trova a Predazzo a oltre mille metri di quota: il più alto d’Italia – sia essa stessa incentrata non solo sull’eccellenza ma anche sulla disobbedienza, considerato che negli anni 70 invece di fare come tanti in quel territorio ormai consacrato al turismo e convertire la struttura in albergo o appartamenti hanno voluto continuare a far pasta e puntando sullo sviluppo tecnologico in «un mondo che ha come parole chiave “nonna” e “tradizione”».
Lavorando in stretta collaborazione tanto con gli agricoltori che forniscono il grano quanto con gli chef che interpretano i prodotti, Felicetti ha contribuito a rendere l’appuntamento milanese – e in generale tante cucine d’Italia – un vero laboratorio di sperimentazione; e quest’anno approfitta proprio dell’occasione per presentare un nuovo formato che scardina più di una convinzione: la pasta mista, prodotto nato dal recupero degli avanzi quando la pasta si vendeva sfusa (consuetudine interrotta dalla cosiddetta “legge di purezza” sulla pasta, 4 luglio 1967) e tradizionalmente associato al Sud Italia, e che in questo caso viene ottenuta da un’unica trafila recuperata e modificata da Paolo Felicetti con più inserti di diametri e spessori diversi, in modo da avere i sei formati con tempi di cottura e consistenze leggermente differenti ma con un risultato complessivo molto piacevole e interessante.
A interpretarla in tanti modi – oltre ai pizzaioli Gianni Di Lella, Renato Bosco e Franco Pepe, coinvolti nello stand a interpretare per una volta un diverso carboidrato, e a Matteo Monti che ha ospitato nel suo locale milanese Razdora, devoto alla pasta fresca, una bella cena pre-congresso dove è stata servita in versione croccante cacio e pepe, nell’inedita scapece di zucchine e con panna, salsiccia, pomodoro e mirtillo – sfilano nella mattinata tre (anzi, quattro) chef piuttosto inclini agli strappi alle regole anche nei propri percorsi di vita e professionali: Davide Di Fabio –a lungo braccio destro di Massimo Bottura fino a quando non ha deciso di lasciare La Francescana per amore e per riavvicinarsi al suo Abruzzo, approdando a La Gioconda a Gabicce Mare – ripropone la sua Zuppiera di pasta e pesci dell’Adriatico, che fonde in maniera dissacrante ma indovinata due grande tradizioni abruzzesi, Virtù (zuppa di legumi e verdure incentrata sul numero sette, preparata a Teramo per il primo maggio) e brodetto di pesce. Per lui, Felicetti ha realizzato un mix ad hoc della sua pasta mista tappando i due fori più piccoli e aggiungendo manualmente due formati, per arrivare a sette e garantire masticazione: la pasta viene finita di cuocere in un brodetto di pesci piccoli e crostacei, mantecata con una crema di legumi, e servita direttamente dalla zuppiera al centro di un cerchio di crudi di mare (come cefalo, ricciola, gamberi rosa, seppie) e sette salse, da quella all’aglio dolce al nero di seppia, finendo con olio extravergine e buccia di limone (nella foto).
Cesare Battisti del Ratanà, sul palco insieme a Vladimiro Poma che guida la cucina dell’insegna informale e scanzonata (ma centratissima) Silvano Vini e Cibi al Banco, cuoce la pasta mista direttamente in un centrifugato di barbabietola, per darle inedite profondità gustative, e la “risotta” con una purea di cannellini conditi con alloro e aglio, per poi completarla con rafano e caviale di uova di luccio affumicate. Nel suo menu, spiega, privilegia il pesce d’acqua dolce collaborando con pescatori e allevamenti dei vicini laghi del nord che adottano pratiche virtuose. «La ristorazione sta cambiando ma anche il Ratanà sta cambiando, abbiamo tanti piatti vegetali», spiega. «Essere disobbedienti è una scelta di vita, cerchi di scardinare le regole canoniche della cucina. Ma bisogna stravolgere con sapienza, sennò diventa caos. In realtà la disobbedienza in cucina c’è sempre stata, altrimenti mangeremo gli stessi piatti di 100 anni fa». E in sala porta anche il ragionamento sulle temperature e su quanto influenzino la percezione del gusto, preparando le Tagliatelle estive con ajo blanco, pomodoro ridotto, mandorle, peperoncino, erba brusca, di cui pubblichiamo la ricetta.
Alessandro Gilmozzi – chef patron del ristorante El Molin, a Cavalese, di cui si annuncia anche la nomina a resident chef dello stabilimento a Molina di Fiemme – “riporta” la pasta Felicetti sulle montagne trentine aggiungendovi le note autunnali di fungo, olivello spinoso e verbena. In particolare, con l’ausilio dell’Ocoo (prodigiosa “pentola a pressione” coreana) ottiene dai funghi una fibra che arricchisce la mista influendo anche sul morso. Il suo lavoro sulla pasta però è a tutto tondo e si concentra soprattutto sulle consistenze, trasformandola senza alcun timore reverenziale in forme e texture assolutamente originali: dal mochi al macaron.
Nel pomeriggio, mentre Karime Lopez e Takahiko Kondo, e Andrea Aprea decidono di proporre paste fresche e secche in versioni dolci (al cui racconto dedicheremo uno spazio a sé), sono altri formati a diventare protagonisti di preparazioni che suggellano lo spirito intimamente mediterraneo di questo prodotto, se pure in interpretazioni assolutamente personali e a volte spiazzanti.
Per esempio, gli “italiani a Parigi” Alessandra Del Favero e Oliver Piras (lei di Pieve di Cadore, lui cagliaritano, si sono conosciuti nelle cucine di Da Vittorio o oggi guidano Il Carpaccio de Le Royal Monceau al Raffles Paris, sotto l’egida dei Cerea) uniscono italianità e creatività raccontando ai francesi l’essenza mediterranea in maniera a loro familiare ma senza aver paura di osare. Cosi ad esempio terminano la cottura delle linguine Felicetti in un brodo degli scarti tostati della focaccia al pomodoro che servono in tavola (ispirato alla soupe au pain grillé di Pascal Barbot), aggiungendo carboidrato a carboidrato. La pasta così assume tonalità scure e intense, e viene mantecata con una dadolata di pomodoro San Marzano asciugato in forno, origano siciliano, olio extravergine, burro all’aringa e Parmigiano Reggiano: un boccone appagante che ricorda la pizza marinara, ma con un certo tocco francese.
Mentre il romano Daniele Lippi – classe ’90, ha portato le due stelle Michelin all’Acquolina dove è arrivato nel 2018 dopo la tragica scomparsa del collega e amico Alessandro Narducci, con cui era stato proprio su questo palco e che ha ricordato commosso – ha lasciati gli studi in ingegneria elettronica per iscriversi a un corso di cucina. Pragmatico e concreto, sa bene che la tradizione stessa nasce da piccoli e grandi tradimenti e oggi sceglie di “contro-disobbedire” rispettando caparbiamente la stagionalità dei prodotti: così il suo spaghettino Monograno Felicetti alla Marinara di Rose sostituisce al pomodoro le bacche di rosa canina (in un estratto liquido simile a un tè che sprigiona note vicine al pomodoro tostato) i cui spigoli vengono arrotondati da un soffritto di olio, aglio e cipolla rosso, sfumato con aceto balsamico bianco con infusione di erbe aromatiche (basilico, origano e finocchietto) e dal miele millefiori. A completare il piatto, delle alici marinate, colatura di alici e capperi sottolio di Pantelleria.
A tutti gli chef che si alternano sul palco, oltre alla targa di Identità Golose, Riccardo Felicetti ne regala una che incornicia l’inserto di una trafila da conchiglioni grossi, arrivata a fine carriera e utilizzata così anziché essere fusa: «Mio cugino Paolo, che è il tecnico di famiglia, ha calcolato che ne sono usciti un milione e quattrocentomila conchiglioni, il che vuol dire pressappoco 140 chilometri di pasta».