Il menu arriva in tavola custodito nel velluto che richiama l’eleganza austera e raffinata dei costumi tipici barbaricini – quello di Nuoro per la carta delle vivande, suddiviso in capitoli come un libro, quello di Desulo per la versione in inglese e quello di Jerzu per i vini, tutti fatti a mano da Alessandra Pala di ShrdnArt – e sono una dichiarazione d’intenti. Come lo è, d’altra parte, già il nome del ristorante cagliaritano di Marina Ravarotto, chef nuorese legatissima alla sua terra d’origine: ChiaroScuro è tra i titoli più noti della scrittrice Grazia Deledda, raccolta di 22 novelle tra le quali è annoverata La festa del Cristo, che il critico letterario Emilio Cecchi definì “ardita e soave”. Una descrizione che sembra indovinata anche per la cucina di Ravarotto: da nessuna altra parte a Cagliari – ma difficilmente anche nel resto dell’isola, a meno che non abbiate guide scafatissime o qualche invito a casa – potreste assaggiare i piatti della rustica (ma a tratti elegantissima) tradizione barbaricina e dell’entroterra ogliastrino, come la Purpuzza (carne di maiale sbriciolata e insaporita da vino bianco ed erbe) servita tra gli antipasti insieme a lumache e lingua, il poderoso Cracu de crapittu (pasta lattea intensa, acidula e piccante fatta fermentare e stagionare nell’abomaso del capretto), la minestra di merca o sa pudda prena (gallina ripiena).
Siamo alle spalle del porto, tra la stazione e l’antico quartiere di Stampace, ma qui la cadenza dei piatti è tutta barbaricina e racconta della grande tradizione rurale del centro dell’isola, e della città di Nuoro dove Marina Ravarotto è nata e cresciuta e da cui non si è voluta allontanare troppo: «Devo sapere che posso sempre mettermi in macchina e tornare a casa di tanto in tanto: quando arrivo, abbasso i finestrini e respiro l’aria di famiglia», racconta. Si è allontanata solo quando, dopo gli studi alberghieri, andava a fare le stagioni invernali a Livigno – non così lontana dalle montagne dove era nata sua madre, bolzanina innamoratasi di un sardo e della Sardegna – alternandole a quelle in Sardegna, dove ha lavorato a lungo al fianco di Mario Tirotto all’Hotel Resort Valle dell’Erica di Santa Teresa di Gallura: «All’inizio non avevo preso molto seriamente il lavoro, è stato lui che mi ha fatto conoscere cosa fosse la vera cucina e mi ha aperto altre porte».
Da Stefano Deidda, al ristorante Dal Corsaro, ha appreso anche l’importanza degli impiattamenti curati e si è avvicinata di più alla cucina sarda, in un percorso che ha visto probabilmente il culmine lavorando con Roberto Petza. «Queste esperienze mi hanno fatto conoscere, o magari riscoprire, i piatti della cucina sarda di casa che però non avevo mai visto al ristorante, e hanno rinsaldato ancor di più l’ammirazione per mia madre e per il suo sguardo verso quest’isola che la affascinava così tanto», commenta Ravarotto. Cresciuta tra canederli e merende a base di pane frattau, e con i pranzi della domenica preparati dal padre, a Cagliari ci era venuta, ormai diversi anni fa, per passare un po’ di tempo con l’amica Francesca Cadinu (che nel progetto ha messo del suo nella carta dei vini), e non è più andata via.
Nel 2017 apre così ChiaroScuro, con l’intento dichiarato di portare in città i sapori del Nuorese cui è tanto legata. Gli inizi non sono facili ma lei non demorde e se, quando il locale ingrana, ci si mette il Covid a fermare tutto non si dà per vinta e ne approfitta per riflettere sul suo progetto e soprattutto per imparare a fare su filindeu, l’antica e affascinante pasta della tradizione nuorese composta di sottili fili tirati a mano e sovrapposti in tre strati incrociati a formare una sorta di “rete”, frutto di laboriosa manualità e antica conoscenza femminile. «A Nuoro viene tramandata solo a chi è della famiglia, quindi all’inizio ho dovuto basarmi su video e tentativi. Ma io sono testarda e dovevo riuscirci! Ci ho messo tanto a cercare ottenere la giusta elasticità, il tipo di semola più indicata, la giusta idratazione: dopo quattro anni ho capito che non sono io che guido la pasta ma lei che guida me. All’inizio riuscivo a fare solo due strati, ed erano troppo grossi. Poi, grazie al consiglio di una vicina di casa, ho trovato una semola biologica di Senatore Cappelli e sono riuscita a ottenere il risultato che volevo».
Così oggi, al ristorante, intesse gli ampi e sottili dischi (60 cm di diametro) composti di due strati verticali e uno orizzontale di fili di pasta tirati a mano dall’impasto di acqua e semola, dalla trama fitta ma leggiadra. Secondo la tradizione, li serve nel brodo di pecora, che però lei sceglie di chiarificare aggiungendo al brodo di ossa la carne marinata con il vino rosso e gli albumi: «È un modo per valorizzare sia la pasta sia il brodo, che risulta più leggero e in cui si distinguono gli aromi delle erbe salde», spiega. Il risultato è infatti un brodo intenso ma elegante, dalla leggera nota acidula che dà freschezza e spessore e lo rende un must tanto in inverno quanto in estate, riassumendo in pieno l’identità del ristorante. Nelle scorse festività natalizie, la chef – insieme al sous chef Andrea Xaxa – ne ha messa a punto anche una bellissima e profumata versione allo zafferano, che in occasione dell’evento Le Stelle in Marmilla alla cantina Su’Entu, ha visto il brodo servito tiepido e arricchito da funghi shiitake, gamberi di Villasimius e rapa bianca, ed è entrata di diritto nel menu.
Non è da meno la Minestra di merca (nel Capitolo Tre, accanto a zuppe di legumi della Marmilla e minestrone), che nasce dalle frugali usanze dei pastori della Barbagia: la merca – termine che indica in generale, pressappoco, la conservazione – è il risultato dell’essiccazione sotto sale della frue (nome barbaricino del casu axedu, formaggio fresco a pasta molle da latte ovino e/o caprino, spesso fatto in casa), che con le sue note sapide e acidule va a insaporire altri ingredienti semplici come – in questo caso – patate e pomodori fatti cuocere nell’acqua. In tavola arriva un brodo etereo, quasi trasparente ma profumato e dal gusto marcato, per quanto non invadente. «È uno dei miei piatti preferiti, insieme a su filindeu e al pane frattau: sono i sapori della mia infanzia. La merca è citata anche in un racconto della Deledda, e dà sapore a tante preparazioni semplicissime, io la uso anche nella tartare di pecora. Ma la verità è che la minestra di merca di mio padre è ancora più buona di quella che faccio io e non riesco a eguagliarla!», racconta la chef.
Poi in menu – che varia con le stagioni – si possono trovare i maccarones de punzu al ragù o gli spizzulus (altra pasta tipica di Orroli che prende il nome dal gesto di “pizzicarla” per dare la forma) che però lei ha voluto “contaminare” con la tradizione campidanese e cagliaritana usando lo zafferano nell’impasto e sostituendo la salsiccia al canonico ragù di maiale. Le Cervella di vitello fritto o il Cavallo con salsa aioli, pomodoro arrosto, pane al prezzemolo, capperi e senape. Ma anche qualche proposta di mare, che in quasi ogni capitolo trova posto come Omaggio al Golfo degli Angeli: dall’anguilla affumicata all’interpretazione dello scabecciu agrodolce tipico di Cagliari e Oristano, senza dimenticare gli scenografici e deliziosi Spaghetti con crema di basilico e gamberi crudi di Villasimius serviti freddi, diventati un must della scorsa estate (ma che ancora non è certo rientreranno in carta, o perlomeno non senza qualche variazione).
Il capitolo cinque, quello finale, non è meno interessante, a cominciare dalla seada – acquistata dal pastificio di Nuoro Ritagli di Pasta perché, dice Ravarotto, gustose come quelle non le si trova da nessuna altra parte – accompagnata a scelta dal delicato miele millefiori o da quello più strong di corbezzolo. Ma merita l’assaggio anche il singolare e delizioso Limone 2.0 in cui un mezzo agrume – completamente svuotato e privato dell’albedo, poi candito fino ad assumere una consistenza davvero inedita e per nulla stucchevole, da mangiare tutto – accoglie una leggera crema al limone sifonata ed è accompagnato da un crumble e da una crema classica che mantiene in misura maggiore l’intensità acidula dell’agrume.