Talvolta, per chi si occupa di cibo e non solo, la cucina – intesa come insieme di ricette, prodotti, tradizioni – diventa un modo per raccontare anche situazioni difficili, come guerre, conflitti, proteste e occupazioni, oltre ogni frivolezza. Perché, come dice Daniele De Michele – economista e attivista salentino che negli anni ha dedicato al racconto della gastronomia popolare libri, performance (con il nome d’arte Donpasta) e film che ne esplorano spesso i risvolti antropologici e sociali – «Parlare del cibo vuol dire parlare della gente, e dunque inevitabilmente di politica». E aggiunge anche, introducendo il libro Pop Palestine – edito per la prima volta da Meltemi nel 2016 e ora in libreria con veste grafica e contenuti aggiornati – di cui firma la prefazione, e una delle sue autrici, Silvia Chiarantini: «Io ho avuto la fortuna di iniziare a parlare di cucina per parlare di politica. Non avevo però considerato la storia e la geografia, cosa che fa questo libro in maniera per me assolutamente innovativa».
Che cosa è dunque Pop Palestine? Un libro di ricette, certo, ma anche una sorta di carnet de voyage (il sottotitolo recita: viaggio nella cucina popolare palestinese), una raccolta di storie e incontri, un modo per parlare di un luogo che nessuno ha mai considerato come meta turistica (a tal proposito vale la pena recuperare la bella e coraggiosa edizione di The Passenger, la collana “per esploratori del mondo” pubblicata da Iperborea nel settembre 2023, prima del terribile attacco di Hamas del 7 ottobre e delle conseguenti atrocità israeliane) e che oggi è in gran parte teatro di distruzione e violenza, oltre che di fame.
Il libro è, appunto, il racconto di un viaggio (vero) fatto nel 2013 da quattro amici italiani, e di un’amicizia “transnazionale” nata proprio dal cibo, grazie a Instagram. «Prima di partire con gli altri dall’Italia, ho contattato questa ragazza che seguivo: cucinava piatti bellissimi e scriveva anche in italiano perfetto, da Ramallah», racconta Silvia Chiarantini, attualmente impegnata in un tour di presentazioni e serate che ha lo scopo di promuovere non solo il libro quanto la conoscenza della situazione attuale. «Così le ho chiesto se volesse farci da guida e farci conoscere gente e piatti del suo Paese. Lei doveva andare in vacanza in Turchia proprio in quei giorni ma poi ha deciso di restare e di incontrarci». La cuoca era Fidaa I A Abuhamdiya, food writer, interprete e docente palestinese, originaria di Hebron, che ha lavorato per qualche anno in Italia, in diversi ristoranti, prima di tornare in Palestina, dove si occupa anche di organizzare eventi e tour enogastronomici per promuovere la cultura e la storia locali (attualmente è rientrata a Ramallah, dove è di fatto bloccata, dopo un breve soggiorno italiano per promuovere il libro insieme a Silvia).
Con la guida e i contatti di Fidaa – che è stata con loro per una parte del viaggio, non potendo andare in alcuni luoghi come Gerusalemme a causa delle restrizioni imposte nei movimenti – Silvia e i suoi compagni di viaggio (tra cui Alessandra Cinquemani, autrice delle fotografie del libro) hanno conosciuto cuochi e pasticceri, negozianti, uomini e donne che vivono nei campi profughi e che hanno condiviso con loro pasti, storie e ricette. Così è nato Pop Palestine, firmato proprio da Silvia e Fidaa. «Nel 2016, quando il libro è stato pubblicato, la situazione era diversa da quella attuale, per quanto pur sempre difficile. Volevamo raccontare la parte bella della Palestina, quella colorata e allegra, “pop” insomma, che non finiva mai nelle cronache dove c’erano solo notizie a tinte cupe, anche per stimolare le persone a viaggiare in quei luoghi, quando si poteva fare. E raccogliere storie legate alla cucina che, inevitabilmente, erano sempre legate all’occupazione, a cominciare dalla necessità di sostituire ingredienti a seconda di quello che arriva o meno, perché è Israele a decidere cosa entra in Palestina e così a volte manca il coriandolo, o la tahina, e così via. Mentre il pesce, che prima era abbondante, è venuto mano a mano a mancare perché in molte zone non gli è permesso pescare. Insomma, volevamo che fosse ascoltata la voce dei palestinesi, un popolo ricco di poeti e scrittori, che non si sente mai e oggi ancor di meno», racconta Silvia, che oltre ad animare il blog popcuisine.it ha pubblicato nel 2022 anche un altro bel libro: Parkour. La mia cucina sconfinata e in movimento.
Così, il libro alterna ricette – spesso semplici e squisite, indicando anche eventuali sostituzioni con ingredienti reperibili in Italia – e belle foto alle storie legate alle diverse tappe del viaggio in Cisgiordania e a Gerusalemme (Gaza era difficile da raggiungere già all’epoca ma ci sono i ricordi di un viaggio precedente di Silvia e i contributi di una giovane cuoca che al tempo era lì), da Nablus a Hebron, da Jenin a Betlemme e oltre, ma anche a tante citazioni letterarie, da Ogni mattina a Jenin di Susan Abulhawa alle poesie di Mahmoud Darwish, e a brevi approfondimenti sulla storia locale.
E, pur senza negare gli aspetti più dolorosi degli ultimi 75 anni – a partire dalla Nakba del 1948, quando moltissimi palestinesi dovettero lasciare le proprie case, di cui custodiscono ancora le chiavi come simbolo di speranza e resilienza, nutrendosi spesso di quel che trovavano lungo la strada a cominciare dalla portulaca selvatica – né tantomeno quelli attuali, Pop Palestine è un libro che mette appetito e fa venir voglia di conoscere di più, di sperimentare in cucina e di assaggiare le ricette narrate: dalla gloriosa makluba (piatto “rovesciato” a base di riso, pollo e verdura) alla soffice focaccia insaporita dallo za’atar (una miscela di erbe a base di timo secco, della varietà che cresce localmente e che dà nome alla spezia, macinato e mescolato con sommacco, sale e semi di sesamo più altre eventuali aggiunte secondo le ricette di famiglia), dall’hummus, la crema a base di ceci e pasta di sesamo, allo squisito musakhan, che Silvia ha preparato in occasione della serata romana in cui lei e Daniele De Michele hanno presentato la riedizione di Pop Palestine e quelle dei libri di lui, tra cui La Parmigiana e la Rivoluzione.
«Il musakhan è forse l’unico piatto che sia esclusivamente palestinese, a differenza degli altri che sono spesso comuni ad altri Paesi dell’area mediorientale: dalla makluba libanese al mansaf della Giordania», spiega Silvia. Si tratta di un piatto della Palestina del nord, legato al periodo della raccolta delle olive, in cui il pane locale, arrostito, assorbe il saporito intingolo di olio e cipolle e viene poi insaporito e colorato dal sommacco, e dal pollo. “Quando era piccola, Fidaa andava matta per il musakhan, fatto secondo la ricetta di suo padre, che comprava il pollo dal macellaio di fiducia, lo insaporiva con tanta cipolla, tanto peperoncino, tanto olio e portava la teglia a cuocere al forno collettivo di Abdullah a Hebron. La ricetta qui proposta è quella originale, meno carica di sapori, ma gustosa ed equilibrata”: così recita l’introduzione completa alla ricetta che Silvia e Fiida hanno condiviso con noi.