Il vino sembra essere iscritto nel suo Dna. È questo il messaggio che traspare dal racconto di Renzo Rosso sul suo avvicinamento, dopo una vita di successi nella moda, al mondo della vitivinicoltura con il progetto Brave Wine. Una holding, ma anche uno strumento di salvaguardia del Made in Italy, in un momento di shopping spinto tra le cantine italiane da parte di investitori internazionali.
Tutto è iniziato per caso o per destino. «In realtà io nasco in una fattoria – racconta il fondatore di Diesel – e da quando ero piccolo mi son trovato tra le botti. Poi la strada mi ha portato nel mondo della moda ed è andata bene, per fortuna, ma all’inizio degli anni 90 ho voluto comprare una fattoria nella zona in cui vivo tutt’ora. È un’area bellissima di 100 ettari: al tempo volevano venderla, c’era già un progetto per farne una piccola Beverly Hills. Invece l’ho acquistata io per lasciarla com’era e ora è diventata un parco. Questo ha dato una grande gioia a mio padre, perché il figlio, che era andato via di casa per fare una cosa diversa, in quel momento tornava un po’ alle origini».
La fattoria aveva anche un vigneto e i contadini facevano un vino che Rosso non esita a definire «terribile». «Poi incontro Roberto Cipresso, un grande enologo – prosegue – ed essendo originario di Bassano del Grappa un giorno viene a pranzo da me e assaggia il vino che veniva prodotto in maniera basica e tradizionale. Roberto rimane colpito, suggerendo che si sarebbe potuto fare un vino eccezionale perché quella è una piccola Borgogna».
A quel punto il progetto prende forma e si iniziano a piantare le vigne, tra Merlot e Cabernet e Chardonnay tutti dislocati studiando i terreni, ma soprattutto esposizione, altitudine ed escursione termica. «Abbiamo cominciato a fare un vino molto buono – dichiara Rosso – ma dato che Cipresso era oberato di lavoro, mi son preso il suo braccio destro, Umberto Marchiori (con il team Uva Sapiens, nda), che nel frattempo è diventato bravissimo e infatti son molto geloso perché è molto richiesto».
Prende forma il progetto-vino e all’inizio il patron Renzo è l’unico venditore. «Erano solo 20mila bottiglie – ricorda – e quindi andavo a Shanghai e lo vendevo ai cinesi, andavo a Tokyo e lo vendevo ai giapponesi. Poi, però, il mio progetto nel mondo della moda si evolve verso il lusso e nasce il desiderio di costruire qualcosa di simile anche nel mondo del vino».
Una holding alla ricerca dell’eccellenza
Nasce allora Brave Wine, costruita fin dall’inizio come una holding per intervenire con partecipazioni in aziende vitivinicole «nei territori più belli al mondo dove si produce vino di qualità», per dirla con le parole di Rosso. Ecco allora l’ingresso nel gruppo veronese Masi Agricola (quotato in borsa), un’avventura oggi chiusa per divergenze strategiche con la famiglia Boscaini azionista di riferimento, e gli investimenti in Langa nella Josetta Saffirio e poi sull’Etna a fianco della famiglia Benanti. «Siamo presenti in due delle denominazioni di elezione oggi in Italia e speriamo presto di approdare anche a Montalcino», preannuncia l’imprenditore, che conferma di aver già messo gli occhi sulle interessanti opportunità nell’area.
Nel frattempo Rosso si concentra sull’avventura langarola e siciliana. «Sono veramente innamorato delle Langhe e di Sara Vezza – afferma scherzoso –: è una vignaiola dal carattere duro, a tratti scontroso, ma questo è parte del suo fascino. Sara è totalmente focalizzata sul suo lavoro. E il suo confinante si chiama Gaja, quindi non possiamo sbagliare. Io posso portare investimenti e visione estetica e cultura globale, utili per portare visibilità a un territorio la cui nobiltà mi affascina molto. Però continuo a fare il mio mestiere e ho la fortuna di accompagnare Sara che è bravissima nel fare il suo».
Pur avendo intrapreso questo percorso più tardi, Rosso si riferisce esplicitamente come modello agli investimenti del colosso francese Lvmh, che negli ultimi anni si sono concentrati anche sul vino. E dunque, dopo le Langhe, arriva lo sbarco alle pendici dell’Etna. «È stata un’operazione veramente speciale – ammette mister Diesel – e scopro giorno dopo giorno quanto sia straordinario questo territorio. Grazie a Dio lì i prezzi dei terreni non sono ancora arrivati alle cifre delle Langhe, però la mia paura è che possano andare molto più in alto, perché non è possibile espandere la zona vitata».
A chi gli chiede perché Etna e perché Benanti, Rosso risponde: «È la Rolls Royce dell’Etna». Per l’investitore contano i 100 punti di Parker per alcune etichette, ma anche il fatto che i fratelli Benanti siano giovani e abbiano una visione internazionale. «Nel mondo del vino serve un’apertura, come quella dei francesi», riflette.
In quest’ottica, il fondatore della galassia Diesel legge un fil rouge tra il vino e la moda. «Quando ti rivolgiti al lusso, lavori sulla qualità per posizionarti in alto – rimarca – e questo è un punto in comune. Perché si parte sempre dal prodotto: se è simile ad altri, ti trovi a far la guerra del prezzo, mentre se punti in alto si alza anche il margine. E quando hai marginalità puoi anche permetterti di fare un prodotto sostenibile. Perché la sostenibilità, dobbiamo dirlo, costa e, allo stesso tempo, se non sei sostenibile vieni emarginato dal mercato delle nuove generazioni».
Ecco dunque sintetizzata la visione di Rosso, che tra moda e vino vede coniugarsi eccellenza e sostenibilità. E il vino ha un valore in più da tutelare: il paesaggio. «È l’emozione – chiosa l’imprenditore – e corrisponde allo store per un brand di moda, che ora sta tornando essenziale dopo il Covid e l’ubriacatura da shopping online. È lì che vivi la vera emozione, le vibrazioni. Per questo abbiamo investito in cantine bellissime e vogliamo portarci più persone possibile per permetter loro di sentire queste vibrazioni». E allo stesso tempo c’è qualcosa che il mondo della moda può imparare dal vino: l’autenticità e lo stile. «Alla fine, il vino è terra e persone – dice – ma soprattutto è identità. Nella moda ogni sei mesi devo dimostrare di esser bravo, devo inventare una nuova collezione, mentre nel vino cerchi di affinare lo stesso prodotto facendolo migliore. Se lavori bene con costanza, una volta che nel vino arrivi a fare qualcosa di importante si mantiene per tutta la vita. In entrambi i casi però se rimani vero funziona».
Oltre alla passione, Rosso sottolinea il coraggio come elemento distintivo nel progetto Brave Wines. «Il coraggio di fare le cose più pazzesche», precisa.
Le good vibes di un investitore
Viene da chiedersi cosa significhi invece lavorare con Renzo Rosso per i produttori che hanno accolto Brave Wine nel loro progetto vitivinicolo. «Abbiamo sentito una energia nuova all’interno dell’azienda – specifica Salvino Benanti – e questo non solo per l’iniezione di capitale, ma anche e soprattutto per una spinta fortissima al miglioramento continuo. Nonostante i suoi molti impegni, Renzo ci trasmette le good vibes che ci danno la sensazione di essere sulla cresta di un’onda e di poter fare delle cose che magari prima non immaginavamo».
L’obiettivo condiviso è di cambiare la comunicazione del vino, avvicinandola soprattutto ai nuovi consumatori. «A volte si percepisce una certa distanza – osserva Benanti – ma alla fine dobbiamo far capire che presentiamo un prodotto agricolo, made in Italy, un prodotto della terra e un frutto della tradizione capace di essere vicino al contemporaneo. Per questo avere un investitore che non appartiene a questo mondo è un’opportunità per uscire dagli schemi». In effetti anche i due fratelli Benanti hanno passato vent’anni lontano dalla Sicilia, lavorando in altri settori, e ora scelgono di tenere la linea tracciata dal padre verso l’eccellenza.
Brave Wine ha dietro una personalità che potrebbe risultare “ingombrante”, più che altro per la grande visibilità di Renzo Rosso, ma anche per Sara Vezza questo non rappresenta un problema. «L’ingresso di Brave Wine ha suscitato in polverone sul territorio all’inizio – spiega la vignaiola – ma tra noi c’è una visione comune. Io non sono un carattere facile e quindi sicuramente allo scontro si arriva, ma sono nel mio flusso e sento che posso raggiungere gli obiettivi che ho perché sono condivisi. L’obiettivo è che l’azienda che ho costruito con tanta fatica diventi un modello non soltanto di produzione del vino, ma anche di sostenibilità. Oggi la superficie aziendale è 36 ettari, 20 di vigneto e 16 dedicati a bosco, proprio perché crediamo che la biodiversità sia fondamentale».
Non per nulla l’unione è stata celebrata con un importante rebranding delle etichette dello storico marchio Josetta Saffirio. «Abbiamo inserito nelle etichette l’orchidea selvatica delle Langhe – spiega Vezza – un fiore autoctono scelto come simbolo delle radici che affondano profondamente nel territorio d’origine, interpretando una nuova idea di lusso, dove lo star bene, in un ambiente sano, inclusivo e autentico trova completa espressione».