Bianca è brasiliana, non ha ancora trent’anni e parla correttamente cinque lingue. L’italiano l’ha imparato tra le mura del carcere di Rebibbia dove è entrata nel 2018 per il reato di detenzione ai fini di spaccio. Fino ad allora conduceva una vita tranquilla e, dopo la laurea in Relazioni Internazionali, lavorava in un hotel nel suo Paese. Ha accettato di diventare un corriere aereo di droga una tantum perché le serviva denaro per un intervento chirurgico estremamente delicato che avrebbe dovuto affrontare la madre. Durante il suo periodo di reclusione ha svolto tutte le attività sportive e culturali possibili ma, a differenza di altre detenute, non ha fatto in tempo a iscriversi al corso da sommelier di Bibenda promosso dalla Fondazione Severino. Non avrebbe potuto concluderlo: stava finalmente per uscire di prigione. Era il 23 marzo 2022. Rimase però in contatto con Eleonora Di Benedetto, avvocatessa e consigliera della Fondazione, organizzazione che mette a disposizione di soggetti svantaggiati l’esperienza di sua madre, Paola Severino, ex ministra della Giustizia della Repubblica Italiana. «Spesso c’è più bisogno di noi nell’area femminile – sottolinea Di Benedetto – perché le competenze professionali sono bassissime e il livello di istruzione capita che sia inferiore rispetto al background maschile». È stata in seguito la stessa Fondazione a coprire il 50% del costo del corso quando Bianca si iscrisse a Bibenda, mentre l’altra metà fu pagata dalla Fis che le offrì una borsa di studio. Oggi Bianca è bartender in un albergo della Capitale (evita di dire che è brasiliana perché altrimenti servirebbe solo Caipirinha!) e quest’estate farà la stagione in Sardegna dove sogna di far arrivare la sua famiglia da oltreoceano. È vero, ” il lavoro nobilita l’uomo”, ma trovarne uno per gli ex carcerati non è facile a causa dello stigma sociale. Ecco perché sono sempre di più le carceri italiane che promuovono programmi di formazione professionale nell’ottica di un futuro reinserimento nella comunità. I dati sembrano incoraggianti: la recidiva per questi detenuti lavoratori è infatti bassissima, pari al “2% tra i 18.654 che hanno un contratto di lavoro contro una media che sfiora il 70%2, come ha riportato Il Sole 24 Ore in un articolo del 2023, riportando un dato del Cnel.
Restando a Roma, appena all’esterno delle mura carcerarie più grandi della città c’è Cookery Rebibbia, tavola calda aperta dal mattino fino a sera, tutti i giorni eccetto la domenica. Ormai un luogo di ritrovo per la zona, frequentato da abitanti del quartiere, polizia penitenziaria o familiari quando vengono a colloquio, questa insegna dà lavoro ad alcuni reclusi in custodia attenuata, la cui voce al bancone si confonde con quelle di altri uomini e donne liberi. In questa dimensione non ci sono differenze tra chi è dentro e chi è fuori. Parallelamente, all’interno del carcere, da qualche anno è stato riattivato il laboratorio di panificazione che sta dando regolare impiego a circa dieci detenuti – tutti alla loro prima esperienza come fornai – che partecipano a “Ricomincio da 3”, progetto sociale con cui occupano il tempo della pena in modo costruttivo, tra studio e lavoro. A guidare lo staff di galeotti è Walter De Martin Pinter, responsabile della produzione che qualche anno fa incontrò la famiglia Ribeca, proprietaria del Gruppo Cr e nella Gdo da fine anni 80, con la quale ha iniziato questa collaborazione. Se andate a fare la spesa in uno dei loro punti vendita Conad fate caso ai lievitati: quelli che escono dal forno di Rebibbia si distinguono per l’ostia (edibile) con marchio Cookery al posto del fastidioso bollino incollato sulla crosta. Dopo l’annuncio di una nuova sede a Monterosi, in provincia di Viterbo, i panini del carcere verranno usati anche nel primo pub del brand: si tratta del loro diner in stile americano e gode dell’appoggio di Ritual Lab, pluripremiato birrificio artigianale a Formello.
Per scoprire dove si trova l’unico luppoleto in una casa di reclusione bisogna andare nell’istituto penitenziario San Michele ad Alessandria. È qui che in mezzo a trecento piante erbacee perenni nella bella stagione si svolge una cena aperta al pubblico in cui il servizio è gestito proprio dai carcerati. A supervisionarli è Carmine Falanga, presidente di Fuga di Sapori, cooperativa che ha trasformato il garage del San Michele in un bistrot con tredici dipendenti tra detenuti ed ex detenuti (da provare i frollini al cioccolato e sale: la ricetta è della food blogger Sonia Peronaci che, lo scorso novembre, ha tenuto un corso di cucina in carcere, condividendo persino la preparazione della sua pastiera). Il beverage è ovviamente homemade grazie alle birre imbottigliate dal birrificio Trunasse. Tutte hanno dei nomi ammiccanti, ad esempio c’è “Pentita” per chi gradisse una Strong Scotch Ale, e si trovano anche da SignorVino. Se provate la “Skizzata” sentirete un aroma di camomilla: è quella delle Lazzarelle, cooperativa sociale nella casa circondariale femminile di Pozzuoli, il secondo carcere in Italia per numero di donne detenute. “Ah, il caffè dalla busta rosa”. È più o meno questa l’esclamazione di chi riconosce il loro prodotto di punta che, dal 2020, non solo si può acquistare online ma anche provare in tazzulella al bistrot aperto nella Galleria Principe di Napoli dove lavorano sia donne libere che detenute. Attualmente è l’unica torrefazione in Italia tutta al femminile che sfida anche il gergo del chicco per cui la parola torrefattore resta invariata (torrefattrice può essere la macchina del caffè tutt’al più). Dopo l’evento sismico che ha colpito l’area dei Campi Flegrei lo scorso 20 maggio la produzione è sospesa e l’edificio è stato sgomberato per inagibilità. C’è tuttavia un nuovo obiettivo: Lazzarelle diventa ufficialmente anche cioccolateria e, oltre a una produzione al gusto di caffè, spingerà la sua linea vegana. Questa anticipazione è stata condivisa da Imma Carpiniello, amministratrice della società che “per il suo impegno nella valorizzazione del lavoro delle detenute all’interno del carcere” è stata insignita del titolo di Cavaliere della Repubblica.
Ha invece ricevuto il marchio De.Co. la ricetta della balanzona (dal piatto balanzone volutamente declinato al femminile) firmata dall’Unione Donne in Italia (UDI) di Bologna e dalla community delle Cesarine, cuoche casalinghe che aprono le proprie porte agli ospiti. Insieme, a maggio hanno introdotto dei laboratori di pasta fresca nella sezione femminile della casa circondariale Rocco d’Amato, guidati da alcune artigiane bolognesi che hanno insegnano alle detenute l’arte della sfoglia e, al di là di un momento di svago e di socialità, hanno condiviso un mestiere. I nuovi appuntamenti sono previsti in autunno. Sono le eccedenze alimentari il principale ingrediente delle marmellate, confetture e conserve preparate nella sezione femminile del carcere di Verona. Escono con l’etichetta di Imbandita – La tavola del riscatto, laboratorio gastronomico che, insieme a Pasta d’uomo – Mai stati così buoni per la sezione maschile, nasce in seno al progetto Alfresco – Il fuori dentro. «Significa dare una seconda chance oltre che alla frutta e alla verdura che viene buttata, soprattutto alle persone, che quando non conformi o in stato di fragilità vengono escluse dalle opportunità», spiega Elena Brigo, presidente della Cooperativa Sociale Panta Rei che da anni sostiene queste iniziative.
Sono nati da un ragionamento sullo scarto alcuni piatti di Francesco Vincenzi per Franceschetta58: da quando collabora con l’orto della casa circondariale di Modena, lo chef ha adottato un nuovo approccio per il cambio menu. «Adesso discutiamo con l’agronoma Giovanna Del Pupo su cosa piantare e poi capiamo come utilizzarlo, mentre prima si andava direttamente al mercato – racconta lo chef modenese –. È capitato che lo scorso ottobre il pomodoro fosse ancora acerbo, così lo abbiamo trasformato in sorbetto verde intenso da servire come pre-dessert. Puliva benissimo il palato. Il Risotto Sant’Anna che abbiamo in carta? Totalmente vegetale, è cotto nel brodo di verdure, un’infusione di tutte le foglie rimaste dall’inverno». D’altronde la prima identità del bistrot della Francescana Family è la territorialità. Avere un campo coltivato a meno di un chilometro dal ristorante è sicuramente il sogno di ogni cuoco ma, in questo caso, la più grande conquista è stata uscire dalla logica che un detenuto sarà sempre e solo un detenuto: «Qui abbiamo solo bravi agricoltori». Entrano in vigna i detenuti dell’ultima isola carcere in Italia, nell’arcipelago toscano, e dal 2012 vengono inseriti nel mondo lavorativo vendemmia dopo vendemmia. A supervisionare il loro operato sono gli agronomi e gli enologi di Marchesi Frescobaldi, istituzione vinicola che, tra le diverse tenute nella regione, ne possiede una più speciale di tutte: Gorgona. Come tutti gli anni, a giugno, si apre la prima bottiglia del Cru, un bianco a base di Vermentino e Ansonica: ha il sapore del riscatto e della speranza.
Delle seconde possibilità è il gusto dei biscotti che escono dalle mura di Cotti in Fragranza nel carcere minorile Malaspina di Palermo. Sono “evasi” fino a trasformarsi in un bistrot che ha dato lavoro ai camerieri di Al Fresco, ma anche allo staff del loro affittacamere di qualità, Casa San Francesco Rooms, in un ex convento della città. Spesso solo a fine pasto o a conclusione del soggiorno gli ospiti conoscono chi c’è dietro a queste mura, una rete che si è ampliata al tema della marginalità sociale includendo anche migranti, persone senza fissa dimora o neet, giovani che non studiano e non lavorano. È allora che lo stupore vince sul pregiudizio. Pioniera di tutte queste (e altre) iniziative è sicuramente Silvia Polleri, imprenditrice visionaria che ha sempre definito “indecente” la proposta che le arrivò dalla direttrice del carcere di Bollate che le chiese di aprire una cooperativa di catering gestita da detenuti. Perché proprio a lei? Perché per dieci anni ne ha avuto uno con cui “coccolavo la borghesia milanese”, come ha dichiarato in un TEDx. Dopo aver portato “il bon ton in prigione”, sempre per usare parole sue, Polleri ha ribaltato ancora la realtà e, invece di far uscire le persone dal carcere, le ha invitate a entrare per mangiare nel primo ristorante al mondo aperto al pubblico in un penitenziario: InGalera. Provate a mettere davanti la parola “benvenuti”. Farà un certo effetto.