Chiunque abbia mangiato del sushi in Giappone, sa che non si torna indietro: difficilmente ci si riuscirà ad accontentare delle proposte “nostrane”, per quanto di buona fattura (con pochissime eccezioni che virano verso il fine dining e conti a due zeri), e mai più ci si azzarderà ad avvicinarsi a un all you can eat dozzinale. A Tokyo (come in altre città nipponiche), mangiare il sushi a un ristorante stellato è un’esperienza che rasenta il misticismo, tra rituali da osservare con devozione, sapori ultraterreni e spesso conti stratosferici – senza parlare della difficoltà di prenotare in molti di questi ristoranti: non solo perché spesso sono minuscoli e hanno solo pochi posti al banco ma anche perché quasi sempre accettano solo prenotazioni telefoniche e in giapponese e i titolari cercano in tutti i modi di tenere lontani avventori poco avvezzi alle regole e ritualità di questo cibo così pregiato.
Ma, se anche una tappa in una delle tante catene disseminate in città regala ai palati occidentali grandi soddisfazioni, sedendosi al banco di uno dei numerosi ristorantini di sushi senza troppe pretese che affollano la capitale ci si può facilmente aggiudicare qualche boccone di felicità con una spesa che si aggira intorno ai cinquanta euro o giù di lì (a seconda del cambio e del pesce prescelto). Fino a qualche anno fa, una meta sicura era il mercato del pesce di Tsukiji, a poca distanza da Ginza: le stradine antistanti alla zona del mercato dove si svolgeva la famosa asta dei tonni e dove si poteva curiosare – a proprio rischio e pericolo per via dei velocissimi carrelli usati per trasportare il pesce – tra i banchi pullulavano di ristorantini di sushi e spesso il criterio di scelta era rappresentato dalla fila: non troppa, per non aspettare ore e ore, ma nemmeno del tutto assente a riprova della qualità.
È così che, con due amici, nel 2018 mi ero trovata seduta dopo una breve attesa da Shou: era la mia seconda volta in Giappone e avevo già mangiato abbastanza sushi da poter dire che quello fosse uno dei migliori mai assaggiati. Poi il mercato è stato chiuso e spostato nell’area più moderna e anonima – e assai meno centrale – di Toyosu, verso la baia di Tokyo, mentre i vicoli di Tsukiji restano affollati da banchi e ristorantini di stampo decisamente turistico che non mi hanno mai attirata. Pur avendo senza dubbio assaggiato del buon sushi altrove nei miei viaggi successivi, restava il ricordo nitido di quei bocconi incredibilmente saporiti ed eleganti, tenuto vivo anche dal profilo Instagram su cui si decantano la freschezza del pescato e le proposte giornaliere.
Così, in occasione della mia ultima visita a Tokyo mi sono decisa e sono andata a Toyosu, pronta a ritrovare Shou e i miei amati nigiri. Impresa non facile, va detto: la nuova zona del mercato è composta di enormi palazzoni ciascuno dedicato a una tipologia di merce. Bisogna individuare quello del pesce, al padiglione 6, salendo al terzo piano e entrando dall’ingresso dell’area ristoranti: non semplicissimo, ma un buon consiglio è quello di salire dove c’è la zona dedicata al cibo che ricrea in maniera decisamente artificiosa l’atmosfera dei tradizionali yokocho – la noterete per il fumo delle braci e per la confusione di turisti –, magari chiedendo una mappa al punto informazioni per individuare più facilmente lo spazio, e proseguire dritto lungo il corridoio esterno, fino a trovare sulla destra l’ingresso per la zona ristoranti. Qui, su un lato della grande sala, dietro a un noren blu con le onde che ricordano quelle di Hokusai in versione stilizzata, c’è il piccolo banco di Shou (talvolta scritto anche Sho).
Prendo posto al banco e noto che sono l’unica straniera, nonché l’ultima avventrice prima della chiusura prevista alle 14: due fattori che, ho l’impressione, non mi rendono simpaticissima al cuoco che mi prepara i bocconi del menu degustazione Omakase da 12 assaggi per 4,800 yen (circa 30 euro), cui poi aggiungerò ancora un paio di nigiri pentendomi di aver declinato la proposta del menu Seasonal Delights a 12,000 yen (70 euro scarsi). Man mano che vado avanti con gli assaggi, però, mangiando tutto velocemente in modo da essere pronta per il boccone successivo che si posa sul piatto appena finisco di deglutire – anche se avrei voluto godermi ciascuno per qualche minuto in più, contravvenendo alla regola non scritta del sushi – e sorseggiando la zuppa di miso vedo il suo sguardo ammorbidirsi, dedicando qualche parola in più a ogni proposta: in sequenza arrivano i nigiri di sgombro, Chutoro (tonno mediamente grasso) e sugarello, quest’ultimo laccato con una salsa non ben identificata ma strepitosa. Proseguo con un boccone di Akami (tonno magro) e poi con un altro pesce dalla pelle rossa, accompagnato da un piccolo “sandwich” di daikon, foglia di shiso, ume (prugna fermentata) e pezzetti di non so quale parte di squalo: preferirei non mangiare nulla di questo pesce la cui pesca dovrebbe essere vietata, eppure devo ammettere che è un boccone celestiale.
Vado avanti con i nigiri di capasanta, di gambero tigre, di pesce spada fiammato e di polpo, quest’ultimo reso ancor più squisito da un tocco di yuzu. In tutti i casi, il riso è semplicemente perfetto – sgranato ma non slegato, ben condito e profumato, in aurea proporzione con il pesce – e le salse e i condimenti, wasabi incluso, sono calibratissimi, rendendo ogni boccone una piccola esperienza. Concludo il mio percorso con un Gunkan (un “cestino” di riso avvolto da alga nori) di uova di salmone e uno di riccio, specialità stagionale, e poi con un nigiri di anguilla di mare e un piccolo Temaki, con riso e pesce tenuti da un cono di alga. Qui, decido di proseguire con qualche altro nigiri: quello di O-toro, o tonno super grasso, una sorta di grossa sardina con tutta la pelle fiammeggiata, e infine quello di Hoho-niku – la parte grassa del tonno dalla guancia – sapientemente inciso e fiammeggiato.
Potrei continuare all’infinito ma so che uno dei segreti per apprezzare il sushi – e in generale il cibo, in Giappone – è quello di non eccedere e di alzarsi da tavola prima di sentirsi completamente sazi. Nel mentre, ho raccontato al “mio” chef che sono tornata da loro dopo cinque anni, riuscendo a ritrovarli anche grazie a Instagram, e mi sono guadagnata così la sua simpatia e riconoscenza – condivisa con tutto il team – nonché un delizioso “shottino” di matcha freddo che bevo con grande piacere. Ci salutiamo calorosamente, promettendo di tornare presto per mangiare di nuovo quello che, se non posso definire il miglior sushi di Tokyo – avendone assaggiati ancora troppo pochi – si conferma di certo il mio preferito.