“Non c’è strada per andare che non sia di camminare”. Mi viene in mente questa strofa di Camera a sud di Vinicio Capossela quando, lasciati i mezzi di trasporto a metà percorso, ci viene detto di proseguire a piedi. Dobbiamo raggiungere l’oliveto che ospiterà il talk, il momento topico della festa di Incuso 2024 intitolata “Un paese ci vuole”, dall’incipit di un passaggio cruciale de La luna e i falò di Cesare Pavese. Si parlerà di paesi, appunto, a cui fare ritorno; di restanza, concetto chiave e caro all’antropologo Vito Teti che ci ha scritto su un libro; di resistenza e di futuro. Non si parlerà di olive, men che meno di olio, ma l’albero sotto il quale ci accomodiamo disposti in cerchio ad ascoltare i relatori è un olivo. Non è il platano sotto il quale nell’antica Grecia Socrate teneva lezioni ai suoi giovani discepoli, ma quanto a sacralità e pathos poco ci manca.
La differenza è che qui nessuno ha intenzione di salire in cattedra, agitare l’indice nell’aria, condurre maieuticamente alla conoscenza. Qui la comunicazione è orizzontale e il fine il confronto, la testimonianza, il dibattito. Conoscevo poco Pasquale Bonsignore prima di questa reunion autunnale tra gli olivi di Castelvetrano. Non conoscevo la storia del suo olio. Non conoscevo il lavoro – lungo e complesso – che ne ha definito il valore. Non conoscevo l’approccio progettuale con cui, da designer, ne ha affrontato la filiera dal campo al mercato e al marketing. Ma è chiaro da subito che non ha chiamato qui amici, giornalisti, chef, intellettuali e imprenditori per parlare dei suoi prodotti, bensì per far vedere e toccare con mano la terra che li genera, misurare la complessità, l’enormità del lavoro e le relazioni che li sottendono, tessere la rete di relazioni fondamentale perché il loro valore continui a essere alto e indiscutibile, generare e condividere riflessioni.
Il percorso per arrivare a tutto questo non è stato facile, né indolore. Pasquale in queste terre, nella Valle del Belìce, tra le rovine di Selinunte e oliveti centenari, torna nel 2011 reduce da un percorso professionale tra Milano, New York e l’America Centrale e con occhi diversi da quelli di bambino e ragazzo abituato a venirci con la famiglia a trovare i parenti. Un ritorno amaro: come Anguilla, il protagonista de La Luna e i falò, scopre che il mondo della sua memoria non esiste più. A colpirlo è lo stato di abbandono in cui versa il paesaggio di allora, i terreni e gli olivi dei suoi ricordi lasciati nell’incuria, ma soprattutto la conflittualità alla base dei rapporti tra i vari attori della filiera, dalla pianta alla tavola, e la loro incapacità di attualizzare e rendere contemporanee le pratiche colturali tradizionali. Lo scoramento dura poco, quella “fecondità di un contrasto irrisolto” – per usare le parole di Vito Teti – lo stimola e lo spinge a intervenire per portare un cambiamento, ribaltare logiche consolidate, invertire il corso delle cose. Per riuscirci, fa riferimento ai quattro step del metodo progettuale appreso nel mondo del design: analisi, ricerca, sperimentazione e produzione; studia il mercato e le strutture produttive, si focalizza sui vari passaggi della filiera, introduce elementi di innovazione nelle diverse fasi del processo produttivo, mescola il suo approccio irriverente e contemporaneo con le competenze delle attività agricole dei territori coinvolti.
Il primo a essere indagato e sperimentato è quello di Castelvetrano, ma l’applicazione dei suoi processi di rivitalizzazione investe poi tutta l’area del Belìce – dedicandosi esclusivamente alla produzione di olive e olio extravergine d’oliva – e successivamente, dal 2016, anche a Pantelleria, con le coltivazioni del cappero, dell’origano e dell’uva di Zibibbo, e in Campania, con quattro varietà di pomodori rossi e gialli. Di tutto questo, dei successi commerciali e imprenditoriali conseguiti, dell’endorsement dei suoi prodotti da parte di alcuni importanti protagonisti dell’alta ristorazione – da Carlo Cracco a Diego Rossi, da Remo Capitaneo a Marco Ambrosino – sotto l’olivo non arriva eco. Non c’è autoreferenzialità, come spesso accade in occasioni di questo tipo, ma attualità, denunce, urgenze. Quella dei sistemi agroalimentari che funzionano più sul conflitto che sulla condivisione: commercianti da una parte, produttori dall’altro, consumatori ancora più lontani, tutti sconnessi tra di loro, mondi che non dialogano. Quella di chi lavora in periferia, in territori estremi dove si vive la scissione tra la voglia di restare per affezione e radici e al contempo la voglia di rivoluzionarla completamente. Quella dei cambiamenti climatici che impongono modifiche colturali e nomadismi di competenze. Quella dell’abbandono progressivo dei paesi che s’impoveriscono e muoiono.
La voce dei protagonisti della festa di Incuso
A parlarne ci sono Riccardo Felicetti, amministratore delegato di Pastificio Felicetti, e Mateja Gravner, dell’omonima azienda agricola in Oslavia, territorio di confine: partner e sostenitori strategici dell’evento, con i quali Pasquale si è confrontato e ha discusso a lungo nei mesi precedenti l’evento. Per il primo, a prescindere dalla scelta, dalla volontà di rimanere in un territorio per presidiarlo, vanno cambiate le attitudini e la modalità attraverso le quali arrivarci, altrimenti si rischia di diventare soltanto degli assistiti e di non seguire il mercato. Mateja approfondisce il tema delle “città a quindici minuti” e sostiene che, per rendere efficace la rete dei collegamenti tra paesi e paesaggi, c’è bisogno di darsi da fare mettendo in piedi delle situazioni che possono funzionare – e ce ne sono – soprattutto grazie a tanti che tornano, giovani in sospeso tra sistemi obsoleti e volontà più veloci.
C’è Luca Martinelli, giornalista, saggista e componente del Consiglio Direttivo del Parco dell’Appennino Tosco-Emiliano, secondo cui un paese ci vuole per andarsene e tornare con uno sguardo maturato altrove: tanti lavorano in luoghi dove non sono nati e tornano dove sono nati con un bagaglio diverso da quello con cui erano partiti, arricchiti, capaci di comprenderne le distorsioni e su quelle distorsioni lavorare. C’è Giampiero Mazzocchi, ricercatore del CREA che, spinto dalla constatazione che la narrazione del prodotto di qualità viene spesso banalizzata a detrimento di chi fa agricoltura vera, ha utilizzato le sue ultime ferie per girare l’Italia in bicicletta, andando a trovare i contadini, le contadine, passare il tempo con loro lavorando a fianco nei campi, per capire quali sono le storie, le motivazioni, le difficoltà, a volte le tragedie, ma anche la bellezza, che stanno dietro chi sceglie di fare agricoltura contadina.
C’è Juri Chiotti, chef e owner di REIS Cibo Libero di Montagna, che insiste sulla necessità che i ristoratori capiscano quale ruolo sociale rivestono e operino nella prospettiva di restituire valore agli elementi caratteristici di contesti territoriali considerati marginali. C’è l’attivista Claudia Fauzia, fondatrice e presidente dell’Associazione Malafimmina, formazione in Economia e master in studi di genere, che dal tema delle donne e delle minoranze allarga il campo al fronte territoriale affermando che bisogna guardare al futuro cominciando a creare delle alleanze fra chi in questi posti non ci sta più tanto bene e chi, al contrario, ha qualcosa per cui lottare. C’è, anche, chi ha deciso di vivere in un luogo marginale per scelta e non per appartenenza, come il francese Romain Cole, ex fotografo e ora produttore di vini naturali, che dopo quarant’anni a Parigi è andato a vivere sull’Etna con la moglie Ginger Ringer e i suoi due figli in cerca di un ambiente puro, immerso nella natura, dove fare il vino: ci ha trovato gente molto accogliente e una vigna vecchia bellissima, che è anche una sorta di jardin vivrier, un orto-giardino autosufficiente con alberi di olivo ma anche meli, peri, noci da frutto, noccioli, mandorli e peschi, dove ha imparato a gestire i tempi e convivere con i ritmi della natura.
C’è, a seguire, la testimonianza di Giuseppe Cipolla della Cantina Passofonduto nella Valle del Platani, al confine tra le provincie di Agrigento e Caltanissetta: la sua è la storia di un ritorno alla terra, alla sua custodia e al suo presidio, dopo la scelta iniziale di allontanarsi da un’attività – l’agricoltura – ritenuta sinonimo di sudore, sacrificio, povertà. Un ritorno scaturito da un demone mai sopito, ma anche dalla constatazione del progressivo depauperamento di un territorio, il suo, di intrinseche bellezza e generosità. C’è, infine, Marco Ambrosino, chef e fondatore del Collettivo Mediterraneo, oggi al ristorante Sustanza di Napoli, all’interno del Caffè ScottoJonno, che sulla restanza e sui margini ha le idee molto chiare: il bacino mediterraneo oggi è un’insalata mista di confini, che abbiamo fatto passare come un insieme di muri, ma che invece doveva essere un insieme di inviti a scambiarsi su quelle linee, attraversarle, mischiarsi, che non significa non essere di nessun posto, ma orgogliosi del proprio per raccontarlo fuori, allargando e migliorando questa varietà. E se l’impressione iniziale è quella di assistere a uno stream of consciuosness, lo sguardo intorno ai campi riarsi, alle abitazioni rurali abbandonate, alle fronde degli olivi cariche comunque di frutti, aiuta a ricomporre i pensieri, pesare le parole, decifrare le testimonianze.
E tutti i momenti che hanno anticipato e seguito il talk sotto l’olivo – la visita a Gibellina Nuova e al Cretto di Burri e l’asta del pesce al porto di Selinunte prima, la premitura delle olive a Castelvetrano e la cena conclusiva curata dagli chef Marco Ambrosino, Salvatore Bianco, Antonio Ziantoni e Valerio Serino al Lido Zabbara di Selinunte poi –, diventano improvvisamente come il Mozzafiato e l’Etichetta Nera estratti sotto i nostri occhi dalle Nocellara delle terre sottratte all’oblio da Pasquale. Precisi, potenti e preziosi.