Hatsune deriva dal giapponese 舌鼓 (shitatsuzumi) e significa “schiocco di labbra”: quel suono della lingua a contatto con la bocca quando si mangia qualcosa di appetitoso. Nel 1893, a Tokyo, ha aperto un ristorante con questo nome: Hatsune Sushi (che in passato ha ottenuto anche 2 stelle Michelin) attira nel quartiere di Meguro appassionati da tutto il mondo.
Il cuoco e proprietario Katsu Nakaji ha dedicato la vita al perfezionamento del sushi ed è considerato uno shokunin, ovvero un artigiano così esperto nella sua arte da esserne diventato maestro. Gli shokunin sono istituzioni per la società in cui vivono e per chi lavora con loro. Osservarli all’opera regala emozioni oltre ogni immaginazione. E per incontrare Nakaji non serve intraprendere un lungo viaggio perché, dallo scorso gennaio, il suo celebre omakase è arrivato anche a Milano in una saletta all’interno di House of Ronin: quattro piani tra cocktail, piatti giapponesi, karaoke e club esclusivi a due passi da piazza Sempione.
Dietro al bancone operano il maestro e gli allievi Hayato e Shuhei. Abbiamo conosciuto i ragazzi e ci siamo fatti raccontare qualcosa in più sulla cultura gastronomica giapponese.
Che cos’è il sushi?
Dici sushi e pensi a distese di roll di riso colorati e geometricamente disposti. È bene sapere che non si tratta di una ricetta nello specifico, ma di una filosofia risalente ai primi dell’Ottocento: quando Tokyo si chiamava Edo e non era la capitale cosmopolita che conosciamo. La tecnica originale del sushi è detta Edomae – dall’unione del nome della vecchia Tokyo e “Mae” che significa “davanti” – e fa riferimento al pesce proveniente dalla baia di fronte alla città.
«A differenza della cucina casalinga italiana quella giapponese è sempre stata più minimale: le famiglie avevano a disposizione il pescato fresco e pochi altri ingredienti, come il riso e la salsa di soia. Cucinare del sushi significava preparare qualcosa di semplice e soddisfacente con quel poco a disposizione» racconta Hayato gesticolando. Un concetto che trova la sua espressione contemporanea nel nigiri: ma solo se il riso è condito con l’aceto. «Se in un nigiri non c’è aceto allora non è sushi», sottolinea l’apprendista.
L’aceto, un elisir di purezza
Per migliaia di anni l’acido acetico è stato utilizzato come disinfettante per le sue qualità antibatteriche. «I nostri antenati lo usavano per marinare il pesce, preservandone le caratteristiche organolettiche – spiega Shuhei – e questa tecnica si è tramandata di generazione in generazione, anche dopo l’avvento delle nuove tecnologie per la conservazione degli alimenti. Inizialmente, durante la preparazione del sushi veniva messo solo sulla parte del pesce. Ma il riso andava subito a male e così si è cominciato a mettere sottaceto anche quello. Ogni nigiri veniva poi avvolto nelle foglie dei cachi, che prolungavano la conservazione, conferivano dolcezza e agevolavano il trasporto». Non solo: l’aceto aiuta a compattare i chicchi ed enfatizza il gusto umami del pesce.
Un riso non vale l’altro
Nella cucina dell’Hatsune milanese si utilizza un riso a chicco japonica di nome yumenishiki, prodotto nel vercellese. «La qualità è molto simile a quella del riso che utilizziamo nel locale di Tokyo – continua Hayato – ma non identica perché l’acqua italiana è molto più ricca di minerali e questo impedisce che il chicco mantenga lo stesso sapore una volta cotto». Il momento dell’assaggio è comunque magico: ci troviamo nell’unico ristorante omakase dove il riso viene cucinato davanti ai commensali, un rituale che si è perso persino in Giappone dal momento che si tratta di un lavoro lungo e poco funzionale.
«Quando il riso è appena cotto, è più complicato assemblare il nigiri rispetto a quando è già stato raffreddato e condito» spiega ancora Hayato. E poi nei ristoranti di Tokyo non c’è un orario fisso per il pasto: i clienti si siedono in momenti diversi e preparare il riso di continuo sarebbe impossibile. Qui invece ci si accomoda tutti alle 19, e poi di nuovo alle 21. Due turni per solo una decina di ospiti.
Cosa si mangia da Hatsune Zushi
Il percorso prevede 14 piccoli assaggi: 12 nigiri di pesce (sorprendenti quelli di triglia e cernia), un nigiri di Wagyu della prefettura meridionale di Saga e una zuppa di miso con erba cipollina, somen (dei noodles molto sottili) e shichimi togarashi (una miscela di spezie e radici giapponesi tra cui pepe di Sichuan, peperoncino rosso e zenzero). Conclude l’esperienza una frittata dolce a base di riso, zucchero, mandorle, scorza di yuzu e yamaimo (un tubero utilizzato come addensante). «Il nostro punto di forza è di essere gli unici a Milano a offrire un omakase di cucina tradizionale Edomae» riferisce con orgoglio Shuhei.
E infatti varcando la soglia si accede a una dimensione orientale autentica: dagli arredi in legno tradizionale ai sakè esposti alla parete, fino all’imponente forno kamado in ceramica situato dietro al bancone. A rendere l’atmosfera ancora più suggestiva è la lingua: i cuochi parlano esclusivamente in giapponese.