Jiři ha 54 anni, è nato e cresciuto nella cittadina di Nový Bor, dove si è formato nelle tecniche di lavorazione del vetro all’istituto tecnico dedicato. Oggi è un maestro del vetro, per studi ed esperienza, e questo significa che porta a compimento la lavorazione di ogni pezzo nella sua linea di produzione manuale. Le sue competenze sono difficilmente sostituibili e il suo stipendio è composto di bonus rilevanti.
Peter invece ha 32 anni, è originario della regione di Trenčín in Slovacchia, e soffia il vetro come hanno fatto per una vita suo padre e suo nonno. È uno degli ultimi allievi di una scuola nobile per vetrai che ormai conta pochi studenti ad ogni nuova sessione, perché lavorare tra forni e canne di soffiatura è un mestiere (e un’arte) sempre meno seducente per i giovani, nonostante le possibilità di guadagno.
Peter e Jiři (non sono i veri nomi) sono due risorse preziose in casa Riedel, per la precisione nella piccola fabbrica-gioiello che Maximilian Josef Riedel – ceo e undicesima generazione di quel ramo di famiglia che scelse di dedicarsi alla cristalleria – definisce ironicamente «un costoso hobby». Eppure quella fucina preziosa di idee e di bellezza nella cittadina austriaca di Kufstein è un po’ come la divisione corse per una casa automobilistica: un laboratorio di progetti, innovazione, comunicazione.
Ecco perché la famiglia Riedel tiene a questo luogo di alto artigianato, che rappresenta solo l’1% della produzione complessiva del gruppo (60 milioni di bicchieri ogni anno) e il 10% dei ricavi, ma dove si concentra la storia del brand. Un percorso che diventa sempre più difficile da sostenere, perché i mastri vetrai e i soffiatori sono sempre meno. «Abbiamo provato a lavorare sulla formazione interna di professionalità evolute – racconta Riedel – ma abbiamo attratto così le attenzioni dei competitor, che ci hanno portato via risorse giovani».
Kufstein, laboratorio d’innovazione
Grazie alla presenza di maestranze preparate e all’investimento su nuovi modelli, la fabbrica fondata nel 1956 da Claus J. Riedel – nona generazione della famiglia, rifugiatosi in Austria dalla Boemia grazie al supporto della famiglia Swarovski – continua a sfornare oggi bicchieri e decanter soffiati a bocca.
È a Kufstein che nascono idee nuove come la recente linea bicolore Fatto a Mano Black Tie, presentata nel 2025, che propone coppe soffiate a macchina della serie Superleggero e rifinite con stelo trasparente e base in cristallo completamente nero applicati a mano.
Ogni calice è un capolavoro di tecnologia all’avanguardia – attualmente è il modello più leggero e sottile disponibile sul mercato – ma è la base applicata a mano che rende ogni pezzo unico. Analogamente nella fucina tirolese vengono fabbricati a mano tutti i pezzi delle collezioni speciali dedicate al segmento horeca e ai glass-lovers. Qual è il segreto? «Quando ho preso le redini dell’azienda come ceo nel 2013 – rivela Maximilian J. – a Kufstein c’erano gli uffici e la produzione, ma non esisteva nient’altro. Soprattutto non c’era una comunicazione di brand. Io tornavo dagli USA, dove ero stato per 15 anni impegnato a costruire quello che oggi è il primo mercato nel mondo per Riedel, e trovandomi oltreoceano mentre il vino diventava una big thing ho imparato che le persone vogliono ascoltare storie. Se vuoi essere un brand, devi poter raccontare una storia. Eppure noi non l’avevamo mai fatto, pur avendo 270 anni tradizione alle spalle, perché mio padre sosteneva che si dovesse solo guardare avanti senza rivolgere lo sguardo al passato».
L’avvento dell’undicesima generazione ha dunque ricreato un ponte tra passato e futuro, costruendo la componente entertainment – che ogni anno porta migliaia di visitatori a Kufstein, contribuendo a posizionare il marchio nell’Olimpo del vetro.
Dai gioielli ai calici-gioiello
Nonostante per secoli gli antenati di Maximilian J. abbiano retto le proprie sorti imprenditoriali sul vetro pressato (per gioielli, bottoni, vasellame e oggettistica, contenitori per profumi o elisir), in tempi recenti Riedel ha legato il proprio nome e il brand all’innovazione nei calici.
«I miei antenati non bevevano vino e non lavoravano ogni giorno, ma andavano a caccia ed erano più ricchi – scherza – perché non producevano calici, ma principalmente gioielli». È stato il nonno di Maximilian, Claus Riedel, fuggito dalla Boemia all’Austria passando per la scuola dei maestri vetrai napoletani, a indirizzare l’attenzione alla lavorazione del cristallo, ma soprattutto ai bicchieri.
Risale appunto alla fine degli anni Cinquanta del Novecento l’intuizione che avrebbe rivoluzionato la cultura del vino: la funzionalità del calice. Attraverso la serie Sommeliers – calici in cristallo soffiati a bocca – è stato il primo a subordinare la forma al carattere di un vino. A lui si deve il bordo a rientrare, che porta i calici a contenere e valorizzare gli aromi del vino (o di altre bevande), anche se le prime prove in questa direzione sono state un fallimento di mercato.
Se è datata 1958 l’introduzione del primo calice specifico per varietà d’uva – il Burgundy Grand Cru – è Georg Riedel (decima generazione) a puntare sulla produzione non di contenitori, ma di strumenti di precisione capaci di nobilitare il vino. Georg inizia infatti a concepire calici studiati per specifici vitigni, una delle peculiarità delle proposte Riedel.
L’avvento di Maximilian Josef, formatosi a Murano tra i maestri vetrai veneziani, ha spinto sulla creatività e sul brand. È conosciuto come designer di decanter e bicchieri aziendali, diventati oggetti preziosi e oggi tra i best seller del gruppo. Il focus è ormai chiaro: fare del calice uno strumento di precisione votato alla valorizzazione del vino e dell’esperienza di beva. E non serve essere degustatori provetti per capire quanto faccia la differenza. Basta assaggiare uno Chardonnay nel calice destinato al Nebbiolo, oppure un Pinot bianco in quello da Pinot nero per riconoscere l’impatto del contenitore sul contenuto.
Perché la forma è sostanza, quando si parla di vetro e vino.