Durante il lockdown di ipotesi – più o meno fantasiose e ironiche – ne sono girate parecchie, quasi a esorcizzare l’innegabile verità: avremmo avuto ancora voglia di andare a mangiare fuori dovendo ottemperare alle norme di distanziamento per limitare il rischio di possibili contagi in quella che è l’occasione di socialità per eccellenza? Ora che si può tornare a sedersi ai tavoli dei ristoranti la palla passa a chi fa dell’accoglienza il proprio mestiere. Cosa significa dover rinunciare a strette di mano e a gesti rituali come prendere il soprabito o ultimare un piatto al tavolo? E ancor di più, come fare a coccolare, rassicurare – ora più importante che mai – o coinvolgere chi siede al tavolo con il filtro irremovibile della mascherina, pur se personalizzata? Certo, ogni locale è un caso a sé: l’Italia è ancora divisa dalla geografia dei contagi e l’accoglienza in trattoria ha coordinate diverse da quella al ristorante stellato. Eppure, su una cosa c’è accordo: oggi, ancora più di ieri, è il fattore umano a fare la differenza e sta al personale di sala superare la sfida di coniugare empatia, attenzione e sicurezza.
«La ristorazione ripartirà dalle persone più che da un piatto. Se c’è qualcosa che non è mancato alla gente è proprio il cibo. Quello di cui si è sentita mancanza è stato invece il senso di socialità. Ma tornare al mondo di prima non è semplice né tantomeno immediato», spiega Piero Pompili. Per il restaurant manager di Al Cambio – bell’esempio di ristorante borghese senza polvere e decisamente improntato sulla sala, a Bologna – si scontano mesi di pessima comunicazione della ristorazione, fatta passare come un’attività ad alto rischio di contagio. Per questo «Per la prima volta la sala ha un valore maggiore rispetto alla cucina. Dobbiamo imparare a essere testimonial dei ristoranti per i quali lavoriamo, lanciare messaggi positivi e rassicuranti». E mettere al centro l’ospite con un approccio sartoriale che unisce il far sentire a proprio agio gli ospiti e una rigorosa professionalità. «Ciò che farà la differenza nel futuro dei ristoranti sarà il nuovo approccio in sala: dovremo essere meno maître e più manager, non basteranno più le conoscenze gastronomiche o enologiche ma serviranno competenze commerciali, di comunicazione e marketing. Mi auguro che le scuole rivedano i piani di studio inserendo materie oggi fondamentali nella gestione di un ristorante». E che sono appannaggio più della sala che della cucina: «A quanto pare, le copertine non saranno più soltanto gli chef ad averle» conclude Pompili.
Pochi cambiamenti ma un nuovo approccio anche nel ristorante stellato romano Pipero. «Avevamo già un locale spazioso, non abbiamo dovuto cambiare granché – racconta Alessandro Pipero – Il problema vero è la mancanza di afflusso, chi si trova al centro di Roma lavorava molto con gli stranieri; noi abbiamo anche una clientela romana affezionata ma ci vorrà tempo prima di ripartire davvero». Da sempre attento ai dettagli, Pipero ha pensato a tutto: dal menù inviato tramite Whastapp al momento della prenotazione al sanificatore per le mani, senza contatto, su ogni tavolo. Al servizio ai tavoli si affianca la proposta delivery PiperHome – con i piatti dello chef Ciro Scamardella consegnati a casa in giacca e cravatta dallo staff del ristorante – e quella di “Pipero a Casa Tua”, in cui arrivano chef, maître e patron per preparare e servire una cena impeccabile. «Al ristorante si va per stare bene, ora ancora più di prima si cerca evasione e la sala è più importante della cucina. E adesso che abbiamo solo clienti italiani possiamo concentrarci su un rapporto ancora più intimo; è inutile negare però che alcune forme d’interazione cambiano, chi va al tavolo deve avere ancora più carisma. Io la mattina faccio le prove davanti allo specchio per sorridere con lo sguardo: prima nei ristoranti erano le stelle che brillavano, ora sono gli occhi».
Le stesse idee valgono anche – se non di più – per trattorie&co, dove l’oste sostituisce il maître. «Qui si cerca ristoro per l’anima oltre che per il corpo», dice Pasquale Torrente che ha riaperto il suo Convento a Cetara con accoglienza calorosa e opere d’arte a segnare il distanziamento: le figure dei migranti in cartapesta, su basi di ceramica di Vietri, realizzate nel 2018 dall’artista cinese Liu Jianhua per la Fondazione Made in Cloister di Napoli, con cui Torrente collabora per il progetto Social Tables. Parte dell’opera Monumenti è ora a Cetara, a ricordare la centralità della bellezza, e delle persone, anche nei momenti difficili. «In questi mesi di isolamento ci sono stati utili i social e le dirette Zoom – spiega Torrente – Ma ora è importante recuperare il contatto umano. Se già prima i ragazzini giravano perennemente con la testa sul cellulare ora potrebbe essere peggio; camminiamo sul filo tra un nuovo Rinascimento e l’imbarbarimento». Le armi che mette in campo sono cultura, contaminazione, gioco: «L’identità si racconta anche con la cucina ma oggi sta soprattutto negli sguardi, in una battuta scambiata al tavolo. Certo, siamo preoccupati per l’aspetto economico; per me turisti, educational e consulenze erano un introito importante. Ma ora ci concentriamo su quello che c’è da fare, e sul saperlo raccontare».
Situazione più delicata e incerta per chi lavora nei ristoranti d’hotel, che risentono della flessione del turismo tanto internazionale quanto (per ora, almeno) interno. Soprattutto nella città italiana più colpita dal virus, Milano, che stava invece vivendo una lunga e prospera stagione di successo turistico ad ampio raggio. «Noi siamo pronti a riaprire e ci stiamo organizzando per seguire al meglio le direttive della Regione e dello Stato, ma non abbiamo ancora una data né altre certezze» racconta Stefano Carnelli, manager del ristorante Terrazza Gallia guidato dai fratelli Lebano, e anche del rooftop bar dell’hotel Excelsior Gallia. «I milanesi hanno dimostrato di avere voglia di tornare a uscire e noi, oltre agli ospiti dell’hotel, abbiamo una buona clientela locale. Penso però che ci sia ancora un po’ di paura e ora chi fa il mio mestiere deve soprattutto capire quali saranno le nuove esigenze degli ospiti. Questi mesi ci hanno fatto vedere alcune cose che davamo per scontate sotto una luce diversa; non si tratta tanto di osservare le distanze ma di riuscire a creare un contesto accogliente, un clima di calore e un rapporto empatico in modo nuovo, rivendendo alcune abitudini consolidate da entrambe le parti. Più in generale, sarà importante mettere al centro del lavoro (ma anche della vita di ognuno) le persone più che il business».
Nella foto: Achille Sardiello, Maître e sommelier del ristorante Pipero a Roma, prepara le crêpe suzette in sala con mascherina e guanti, ph. Andrea Moretti.
In collaborazione con Intrecci – Alta Formazione di Sala
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