AGA
Sardo classe 1986 lui, veneta di 2 anni più giovane lei, Oliver Piras e Alessandra Del Favero intrecciano per la prima volta mestoli e sguardi al ristorante Da Vittorio, tempio tristellato dei Cerea: è la premessa di una delle storie più belle della ristorazione italiana. Presto si trasferiscono nel piccolo hotel Villa Trieste della famiglia di lei, a San Vito di Cadore: fuori dalla porta svettano le cime dolomitiche, scroscia l’acqua pura dei torrenti, profumano intere praterie di erbe aromatiche. Dentro, negli interstizi di una piccola sala con soli 5 tavoli in legno, germoglia l’impulso a fare una volitiva cucina di montagna (premiata dalla Michelin con una stella), personale come la sensibilità che i due ragazzi hanno affinato al fianco di maestri importanti (Norbert Niederkofler, Roberto Petza, Joël Robuchon, René Redzepi). Se il mantra preferito da tanti cuochi oggi è “Ricordare tutto per poi dimenticare tutto”,va detto che la missione riesce meglio di altri al Piras, lesto a dimenticare i profumi della sua macchia mediterranea per assegnare nuove organolettiche a salmerini e caprioli, burri di malga, ravioli di lepre, dessert alla rosa. Lo guida e asseconda lei, tenace cadorina innamorata delle sue valli e dei toni acidi e amari pilotati con grazia e vigore, in una riscrittura dei codici di montagna che fa largo uso di fermentazioni e affumicature. Sulla via per Cortina, potreste chiedere quelle meravigliose Linguine ai mirtilli, luppolo e salsiccia di manzo cruda ma non scommetteteci troppo perché, come tutte le migliori cuisine du marché, il menu dipende da quel che madre natura regala ogni dì. – Gabriele Zanatta
Via Trieste 6, San Vito di Cadore BL – agaristorante.it
AL CJASAL
Una bella storia, quella del Cjasal: mamma, papà e i due figli, caratteri e talenti che si completano, nella forza di un progetto condiviso. Enzo Manias e la moglie Rosellina, quando i figli Stefano e Mattia (31 e 28 anni), di rientro dalle cucine di Bartolini e Alajmo, comunicano l’intenzione di proporre la loro cucina, decidono di lasciar fare. Oggi Enzo, cultore della tradizione veneto-friulana, in questo casale sulle sponde del Tagliamento, fa l’oste e assiste i clienti nella scelta dei vini, mentre Rosellina, discreta ed elegante, dirige la sala. Divertimento e tecnica, accoglienza e originalità ispirano un menu che contempla anche le mezze porzioni fino addirittura ai cicchetti, le tapas veneziane. Una cucina dove gli ingredienti comandano e oltre il 60% del fabbisogno di verdura è coperto dall’orto personale, dove la tecnica è usata sì, ma sempre con discrezione. Poi, certo, un cicchetto che sembra semplice, il Pane e ragù, nato per gioco in birreria, è complicato, fra l’impasto del bombolone, le capsule di ragù e besciamella da inserire all’interno, la lenta frittura a 160 gradi, fino alla polvere di latte, pastorizzato, poi trasformato in cialda, infine frullato, per rifinire il boccone. Mentre il Cannolo al baccalà passa per un grandissimo baccalà battuto a mano da Molino Zoratto, e mantecato con una ricetta segreta, che parte dalla cottura a bassa temperatura e – ovviamente – non prevede il latte. C’è da godere fra piatti calibrati e di piacere come i Calamaretti spillo alla brace, soffice di scamorza e spinaci, il Risotto alla rosa radicchio e rapa rossa, la Sfoglia di patata, tonno Balfegò, maionese di Sriracha, i dolci di eleganza e misurata dolcezza (come Eis Cafè liquirizia e mandorla) di Elena Falliero, compagna di Mattia. – Claudio de Min
Via Nazionale 30, San Giorgio al Tagliamento VE – alcjasal.com
BANCO
Un po’ come accadde per Adamo ed Eva, da una costola può nascere una creatura migliore dell’originale: e fu così che dal Ristorante Consorzio di Torino nacque qualche anno fa Banco Vini e Alimenti… Battute a parte (siamo infatti supporter della prima ora del mitico Consorzio) è indubbio che quello che sembrava un divertissement intorno al concetto di gastronomia e prodotto è diventato un progetto interessantissimo. Già perché Banco oggi non è più una bottega alimentare dove comprare e gustare prodotti ma un bistrot in piena regola, tanto da essere paragonato a quelli di molti illustri colleghi parigini. Stiamo parlando del fenomeno di quella cucina d’autore vestita di semplicità che ha messo in crisi l’alta ristorazione essendo capace di straordinari contenuti a poco prezzo, in un contesto per nulla ingessato. Il prodotto, qui in via Mercanti (a due passi dalla casa madre), rimane centrale ma le mani (e la testa) di Marco Massaia sono capaci di lavorarlo e maritarlo in un registro alto e consapevole, dando vita a piatti innovativi che nulla hanno a che fare con quella che qualcuno chiama “cucina regionale rivisitata”. Qui si fa piuttosto cucina golosa indipendente e il prodotto regionale (o quello che talvolta arriva da lontano) diventa funzionale alla creazione di gusti nuovi e ricette scoppiettanti: cuore di manzo rosolato, more di gelso, umeboshi e punte di cicoria o zuppetta di lenticchie con carpaccio di ostrica e orecchie di maiale, tanto per capirsi. Mentre il piccione con il paté del suo fegato e capperi di aglio orsino in salamoia o gli asparagi al burro affumicato, salicornia aglio nero e luvertin (luppolo selvatico) sono il frutto della raccolta di erbe spontanee che appassiona lo chef. C’è poi una cosa di Banco che non c’entra con la cucina ma che fa parte della ricetta: intorno al bancone e al tavolo sociale l’atmosfera è più conviviale, si interagisce e capita di fare nuove conoscenze. La ristorazione del futuro passa anche da qui. – Marco Bolasco
Via Mercanti 13/F, Torino – bancoviniealimenti.it
BROS’
Nel breve volgere di un paio d’anni, Isabella Potì e Floriano Pellegrino hanno spostato l’asse della ristorazione pugliese dalla periferia al centro dell’impero gastronomico. Prima di loro, Lecce e più in generale il Salento in tavola era una landa polverosa che offriva pallide imitazioni della golosa cucina domestica. Prima di mettere mano ai fuochi di Bros’, la bella coppia di millennials ha fatto il giro del mondo, tornando a casa con un bagaglio carico di meraviglie apprese alla corte di René Redzepi, dal pastry chef iberico Paco Torreblanca e soprattutto da Martín Berasategui, maestro e mentore (e domani, chissà, socio in affari). Da loro hanno imparato non solo tecniche di cucina e abbinamenti audaci, ma a mettere a segno il proprio talento. Una cucina troppo cerebrale per colpire al cuore e troppo gourmet per saziare davvero? Chiacchiere. Pregiudizi. Per sentirsi appagati alla mensa dei Bros’ basta essere curiosi. E abbandonarsi ad avventure come la cipolla di Cannara cotta in forno, lampascioni, ribes nero, perle di aceto balsamico, olio al porro, tapioca e sambuco, piatto bellissimo e complesso. O capolavori di semplificazione come le ormai celebri linguine Monograno Felicetti, latte di pistacchio e liquamen (il liquido di fermentazione che si ottiene dalla produzione del garum). Morale: «Noi organizziamo il lavoro come una squadra di rugby, progettiamo i menu come uno studio di design strategico, comunichiamo come un’azienda di moda, lavoriamo come minatori e ci divertiamo come se vivessimo a Ibiza». Parola di Floriano, chef classe 1990, il primo a portare la stella nella storia della ristorazione salentina. – Sonia Gioia
Via Acaja 2, Lecce – brosrestaurant.it
DAGORINI
Ad ascoltare i rumors in circolazione è il fenomeno del momento, e l’esperienza a tavola è di quelle che lasciano il segno. Peraltro cenare al ristorante DaGorini non è proibitivo (si spendono dai 40 ai 60 euro) e, fatta eccezione per i fine settimana, non bisogna prenotare con largo anticipo. Insomma è il caso di sbrigarsi, perché Gianluca Gorini è il cuoco rivelazione degli ultimi mesi e non si è ancora montato la testa. Un po’ perché non è nel suo stile, schivo e sempre di basso profilo, un po’ perché a Bagno di Romagna ha trovato la sua dimensione, tra la famiglia e un territorio lontano da tutto, pieno di tesori gastronomici nascosti. Lì, fra quelle mura, fino a qualche anno fa officiava Giuliana della Locanda del Gambero Rosso ma la staffetta fra la tradizione e l’avanguardia è stata quasi naturale e piena di affetto reciproco. Avanguardia, sì, di questo si può parlare: senza tecniche esibite né spettacolarizzazione, la cucina di Gorini è un percorso raffinato fra sapori inaspettati e accostamenti che fanno saltare sulla sedia. Un mix di grandi tecniche e gesti classici e la curiosità di chi sa esplorare (e gestire) il gusto con maestria come nel caso, in questa stagione, del carciofo in salsa di carciofo. Ma è nelle carni che Gianluca dà il massimo, in un mondo in cui tutti giocano con antipasti e primi, spesso leggeri e di pesce, lui sbatte sul tavolo i suoi monumentali piatti di carne: croccanti, saporiti, profumatissimi, a metà fra la grande cucina borghese e vibranti intuizioni contemporanee. Un esempio? Il piccione scottato alla brace, estratto di alloro, cipolla al cartoccio e salsa di cipolla e la lepre arrostita, verza, mandarino, essenza di ginepro e timo cedrino, tanto per capirci. D’altro canto il suo maestro è Paolo Lopriore, e non c’è nient’altro da aggiungere. – Marco Bolasco
Via Giuseppe Verdi 5, San Piero In Bagno (FC) – dagorini.it
CONCETTINA AI TRE SANTI
C’è un cibo più tradizionale della pizza, a Napoli, in uno dei quartieri più popolari – ieri malfamato, oggi veracemente di tendenza – della città? Sembrerebbe difficile non cadere nei cliché, nell’alibi orgoglioso dell’ “abbiamo sempre fatto così”. E invece Ciro Oliva, che parrebbe incarnare alla perfezione lo stereotipo dello scugnizzo napoletano, ce l’ha fatta. Sguardo da ragazzino e parlantina a mitraglia, 27 anni, ha trasformato la pizzeria di famiglia in un locale contemporaneo e la pizza in oggetto di sperimentazione. Senza, però, dimenticare le origini. Da Concettina ai Tre Santi – l’in- segna si riferisce al nome della bisnonna fondatrice, e alla devozione di famiglia – dunque ci si può sedere, fila permettendo, per mangiare una strepitosa pizza rind’o ruot (cotta nella teglia tonda) con una birra, o per fare una divertente e appagante “esperienza” con il menu degustazione, percorso di 12 portate più dessert che prende spunto dai ricordi d’infanzia così come dalle idee che Ciro coglie a ogni occasione, dai viaggi alle chiacchierate con Massimo Bottura. Si parte ad esempio dalla margherita o marinara per procedere tra montanarina al ragù, zuppetta forte (il tipico soffritto d’interiora al sugo piccante, rivisto con parti nobili di maiale), pizza fritta Parthenope (con ricotta di fuscella, ricciola affumicata e alghe), mini-fresella (con l’impasto della pizza biscottato) con lenticchie, erbe, nocciole e limone. E poi una cantina notevole, con tante bolle francesi ed etichette di pregio, e una squadra under 35 in cui più che i ruoli contano le inclinazioni. – Luciana Squadrilli
Via Arena della Sanità 7 Bis, Napoli – pizzeriaoliva.it
DATTILO
A Strongoli (Crotone) non ci arrivi per caso. E il tragitto non risparmia alla vista gli sfregi di cemento armato inferti a una delle coste più belle d’Italia, a un soffio dal mare. Solo arrivati a destinazione il passo cambia, di botto, e dalle architetture ossessivo-compulsive della speculazione selvaggia la natura prende il sopravvento in un adagio di profondissima quiete. Qui è il DattiIo. A dare il benvenuto, un passo oltre la soglia, è una pubblicazione di Libera, l’Associazione contro tutte le mafie. Un manifesto programmatico, nel cuore della Calabria selvatica, che apre le porte all’esperienza fine dining e richiede una professione di fede. Poi, il camino monumentale spalanca le braccia. Se c’è uno strapotere che detta la linea in casa Ceraudo è quello della Bellezza, signora che mette alle porte le brutture e i compromessi. A cominciare da diserbanti e chimica che infestano il paesaggio agricolo, contro cui Roberto Ceraudo ha ingaggiato una battaglia senza sconti. E l’ha vinta, con Caterina al fianco, che porta il suo stesso nome e il medesimo sangue bollente. Calabrisella di 28 anni con le guance colorite e il sorriso d’enfant, spadella da cuoca navigata. E sa dove andare a colpire con piatti come l’uovo “alla Parisi” (leggi, da galline allevate a latte e grano nell’azienda agricola di famiglia, secondo il metodo del farmer visionario di Massa Carrara), servito con spuma di pecorino, guanciale croccante e asparagi. Tanto per gradire e chiarire che questa (apparentemente) timida ragazza è degna figlia di suo padre, concentrato di capsaicina pura, rubefacente. Quel che, pareva a lei stessa, le mancava lo ha imparato prima alla facoltà di Enologia di Pisa e poi alla Niko Romito Formazione. Il lungo pit stop fra i banchi di Castel di Sangro ha solcato tracce profonde e affiora come memento in piatti come i bottoncini mandorla e ‘nduja. Sintesi di amore filiale per madre terra calabra e per Niko, più che maestro «il mio secondo padre», dice senza che Ceraudo senior si risenta. – Sonia Gioia
Contrada Maremonti, Strongoli (KR) – dattilo.it
ESSENZIALE
La mascotte qui è un pinguino bianco, Gianni. A tutti piaceva l’idea di un animale che ama stare in gruppo ma che può all’occorrenza fare il capo, deviando il corso del branco. Simone Cipriani sogna di deviare il corso delle cose, di trovare una semplificazione efficace che renda la ristorazione meno faticosa. Ha 34 anni e un team agguerrito che vuol rendere totalmente parte di un progetto audace, soprattutto in una città come Firenze dove la rivoluzione gastronomica più rilevante del secolo è stata l’apertura dell’Enoteca Pinchiorri – 47 anni fa. Essenziale ha intenti coraggiosi. Nel piatto e come esperienza convince. Una cucina di mercato contemporanea che cambia come un flusso naturale, giorno dopo giorno: materie prime intense, una tecnica notevole e idee interessanti. La tradizione è spesso l’origine del piatto, la ricerca va oltre. Cavolo nero, pappa al pomodoro, ribollite sbucano insieme a piccioni, miso e quinoa e il complesso risulta armonico e deciso. Dal menu è possibile scegliere una portata (22€), 4 Portate (45€ dolce incluso) o due percorsi al “Buio” di 6 o 8 portate (65€ o 80€). Se riuscite, prenotate uno dei posti a ridosso della cucina, giocando fino in fondo anche sullo schema stesso dell’esperienza-cena, sulla successione dei piatti (basta antipasti, primi e secondi!). Il servizio è ridotto al minimo, per i cambi posate si attinge autonomamente a un cassetto del tavolo. La carta dei vini è intelligente, abbastanza “naturale”, ragionata. In menù in questo periodo trovate: Fegato di pollo, arancia, fichi, basilica; Uovo, cavolfiore, acciughe, cacao; Minestrone di verdure, cicale e gamberi; Piccione, ceci, miso e barbabietola. Per esempio. – Elisia Menduni
Piazza di Cestello 3R, Firenze – essenziale.me
MATERIA
Andare lontano per comprendere il vicino. Davide Caranchini, comasco, classe 1990, correndo capisce rapidamente il percorso da intraprendere. Dopo l’istituto alberghiero a Como scappa a Londra: prima al Maze di Gordon Ramsay, poi a Le Gavroche (Michel Roux Jr) e infine all’Apsleys di Heinz Beck. Nel 2013 manda un curriculum al Noma e corre a Copenaghen. Capisce che la ricerca di Redzepi in fondo non è troppo diversa da quella che lui ha ereditato dalla sua famiglia. Le spiagge del mare del Nord gli ricordano le rive del suo lago, la raccolta delle erbe selvatiche è un rito che la nonna gli aveva insegnato da bambino. Oggi il ristorante che ha creato in un ex laboratorio di Cernobbio (stellato da pochi mesi) è collegato a un orto con oltre 130 diversi tipi di erbe. Il vegetale è un tema centrale di Materia, in purezza o in versioni fermentate, essiccate o elaborate con cotture estreme. Una cucina sperimentale che deve sempre partire dalla sorpresa e dalle emozioni del cliente. In carta ci sono bestie intere cotte in cera d’api, insalate “alla griglia”, vegetali stagionati. Il piatto signature ci ha conquistato: Insalata di cavolo rosso, midollo affumicato, caviale e latte di mandorla amara. Il tema dell’amaro esplode, ben raccontando come il buono non debba forzatamente essere un gusto rotondo e morbido. Ogni boccone è diverso: prima entra lo iodio del caviale, poi la componente grassa del midollo che avvolge il palato, infine l’acido del cavolo, mentre rieccheggia il fumo del midollo, persistente. L’amaro torna anche nelle Linguine Felicetti, burro, colatura di sgombro e genziana, ottime. Sebbene la cucina di Davide voglia anche divertirsi (nel menu sbuca un piatto inspirato al Lick it up di Gaggan), nell’insieme stupisce per intensità, più che per giochi o salti mortali. – Elisia Menduni
Via V Giornate 32, Cernobbio, CO – ristorantemateria.it
MEZZA PAGNOTTA
Sono i pionieri del vecchio, selvaggio Sud. Gli Indiana Jones della Murgia e della Lucania. Gli esploratori di
una Puglia trapassata che parla tutti i dialetti locali. Non twittano, postano poco e niente. Ma malgrado i 60 anni in due, i Montaruli bros sanno di solstizi, equinozi e lune nuove. Si approvvigionano da qualcosa come 50 piccoli produttori e saldano in contanti, perché «il pagamento rinfresca la schiena del contadino». Il foraging è per entrambi un istinto primitivo, lo stesso che li guida alla riscoperta di sementi perdute, legumi antichi e cotture elementari che lasciano alla potenza della materia vegetale raccolta a cielo aperto la libertà di esprimersi in se stessa, con manipolazioni minime, essenziali. Questo è il microcosmo di Mezza Pagnotta, 32 posti e menu degustazione da 25 euro, dove la lingua ufficiale è quella delle erbe, declinata in lingua madre (il ruvese arcaico), latino e italiano. Metti la senape: “sinapis arvensis o cim’amaridde, cima amara”, declina il maggiore, Francesco, per dire che la sorellastra della rapa somiglia un po’ al maiale: non si butta via niente. Col seme i cugini francesi ci fanno la mostarda. Vincenzo, in cucina, la serve in foglia stufata con aglio, peperoncino e pomodoro Regina su una mastodontica frisa completata con un macinato di pomodori secchi che sembrano curcuma, ma sono altra cosa. O il cardo selvatico spinoso, saltato con cipolla e strapazzato con le uova, una frittata sbagliata. È apulian street food bonificato dalle scorciatoie fast, è curiosità radicale delle cose della terra, che fa di questi strani ragazzi, a loro agio più nell’incolto che nel paesaggio agricolo domesticato, gli eredi di fatto di Pietro Zito. – Sonia Gioia
Via Rosario 9/11/13, Ruvo di Puglia (BA)
PUNTO OFFICINA DEL GUSTO
Dopo molti anni al Serendepico, piccolo resort sulle colline lucchesi, Damiano Donati (classe ’87) lascia la ribalta e opta per la terra. Passa un anno in un agriturismo non lontano da Bolgheri, dove gestisce anche un orto, gli animali da cortile e il ciclo di una realtà conta- dina quasi del tutto autosufficiente. Nel 2014 con un gruppo di amici torna a Lucca e decide di aprire un locale contemporaneo che abbia come radici la concretezza della produzione agricola, dei cicli della natura e del rapporto con il territorio. Nasce così il Punto. Non un ristorante, forse una trattoria toscana di nuova generazione, che propone un cucinare immediato e di sostanza. Gli spazi nell’insieme compongono un qualcosa di vagamente industriale, pop, certamente hipster. Tutto è slogan, motto e proclama identitario. Le parole chiave, anche di un “Manifesto” che vorrebbe rappresentare il progetto, pubblicato sul sito web, sono “pericolo, energia, ardore elotta”. Nel piatto appare tutto (per fortuna) molto più cauto, intenso sì, ma anche pensato innanzitutto per nutrire senza nessun fronzolo od orpello, per offrire cose buone cucinate in modo semplice e ragionato. Le ricette sono il frutto di un gioco con il passato e di un dialogo contemporaneo con allevatori e contadini della zona: la verdura proviene in gran parte da un illuminato contadino con 3 ettari di orti in biodinamica sulle colline lucchesi, la carne e i salumi da allevamenti naturali a basso impatto ambientale e di grande qualità. Il pane ha il sentore acidulo di un’intelligente panificazione a pasta acida con farine vive. La piccola carta dei vini propone una selezione di etichette “naturali”. L’attenzione ai costi produce un menu che si aggira sui 50 euro. Nel corso della nostra ultima visita gli assaggi più convincenti sono stati: il Baccalà mantecato, la Salsiccia con i rapini (ottima combinazione di grasso e amaro), gli Spaghetti, aglio, olio, peperoncino, acciuga e Parmigiano di cavolfiore, il Cappone e barba amara e la Tortina di barbabietola. – Marco Bolasco
Via dell’Anfiteatro 37, Lucca – puntoofficinadelgusto.com
REIS
L’aggettivo per descrivere Juri Chiotti è “radicale”. Radicale perché nel mezzo d’una turbo-carriera s’è francescanamente svestito di tutto il superfluo – successo, stella, ribalta – ed è tornato alla sua terra abbarbicata sulle montagne della Val Varaita. Radicale anche in senso letterale, perché l’ha fatto per ritrovare le proprie radici, innervate tra il tomino di Melle e la cucina occitana. Infatti il suo ristorante – una casetta circondata da pecore, capre e dai frassini che danno il nome al comune – l’ha chiamato “Reis”, che da queste parti, appunto, significa “radici”. Tra questi boschi Juri c’è cresciuto – è leva ’85 – ma poi, in quell’età in cui i legami sembrano solo catene, è andato a farsi prima da Camia, poi da Niederkofer, da Cracco fino a rientrare a Cuneo, dove al Delle Antiche Contrade si trova a fianco il suo gemello diverso Diego Rossi. Ma, ancora giovane, Chiotti, sente il richiamo della sua foresta e torna a casa per ricreare una comunità che stava scomparendo insieme ad altri trentenni che, con lui, stanno facendo crescere questo ristorantino di montagna semplice e raffinato al contempo, preciso ma popolare (menu a 30 euro). Il casaro, l’agricoltore, il produttore di vino, quello di birra, il fornaio: con alcuni di loro sta riattando la casa che fu di suo padre e di suo nonno e lì trasferirà Reis nel 2020, portando a compimento il proprio progetto di mettere assieme cucina, camere, produzione e, soprattutto, persone. Chi abbia la pazienza lenta di venir quassù, infatti, non trova solo un rifugio gentile e piatti che contengono piante e bestie che fino a poco prima stavano in cortile – la tuma con patate e aiolì, le raviole de Blins, gli gnocchi di pane e aglio orsino, il cappone ruspante con le verze, le polpette di cervo, la mustardela –, ma anche un paese in miniatura, con le sue storie e le sue chiacchiere di fronte a una bottiglia di vino. Non solo un ristorante, una comunità. – Luca Iaccarino
Località Meira Brancia, Frassino CN
RETROBOTTEGA
Aperto nel 2015 come locale informale ma con alta cucina, senza servizio ai tavoli ma con tanta atmosfera, dai due chef-bottegai Alessandro Miocchi e Giuseppe Lo Iudice – poco più che trentenni, con già tante esperienze importanti alle spalle e stanchi di alcuni vezzi del fine dining – Retrobottega è riuscito nei suoi molteplici intenti: un passo alla volta ha scardinato parecchi luoghi comuni della ristorazione gourmet, dimostrando come sia possibile proporre anche in Italia (e a Roma, per di più in pieno centro) un’idea di gastronomia rigorosa ma originale e libera, pensata ma estemporanea, giovane e divertente ma non caciarona. Un progetto cosmopolita e costruito a tavolino ma pronto a cambiar pelle, basato su due personalità complementari e sulla capacità di fare squadra nonostante il turnover spesso rapido dello staff. Loro sembrano avere mille idee e di non aspettare altro che metterle in pratica. Così, partiti con la formula al bancone dove si poteva chiacchierare con la brigata al lavoro sui piatti, dopo meno di due anni hanno cambiato veste al locale per renderlo più accogliente – senza perdere del tutto l’anima pop –, lanciando nel mentre un fortunato progetto temporary con cucina tematica; poi, seguendo l’inclinazione di Alessandro per la natura e la conoscenza con l’etnobotanico abruzzese Alessandro Di Tizio, hanno iniziato con le uscite di foraging per procacciarsi erbe, radici e bacche intorno a cui nascono piatti come la Crepinette di foglie, limone e topinambur o i Tortellini, Parmigiano, acciughe e foglie piccanti. Da poco, al civico accanto, hanno tirato su la saracinesca di RetroPasta – pastificio artigianale e bottega – ed è in dirittura d’arrivo anche l’enoteca RetroVino. – Luciana Squadrilli
Via della Stelletta 4, Roma – retro-bottega.com
RISTORANTE GIGLIO
Come si traghetta nella modernità (ammesso che lo si voglia fare) un grande ristorante della tradizione borghese, quello dove i nipoti portano le nonne con il filo di perle per il pranzo della domenica, quello dove le famiglie festeggiano le occasioni importanti e convergono i turisti in cerca di porcellane, tortelli e selvaggina?
Il ristorante Giglio, a Lucca, è un buon caso da studiare. Nato nel ’79 come spinoff della celebre Buca di Sant’Antonio per mano di Franco Barbieri, Giuliano Pacini e Loredano Orsi (in cucina), e ancora oggi condotto con eleganza e pragmatismo dalla famiglia Barbieri, nella persona di Paola e del figlio Lorenzo Stefanini,
ha inizialmente attinto dal vocabolario tradizionale lucchese, con incursioni nel mantovano, terra d’origine dei Barbieri. “Tordelli” ripieni, tagliatelle, arrosti, grande pesce. Con l’approdo in cucina di Lorenzo, affiancato dagli amici Benedetto Rullo e Stefano Terigi, è arrivata la svolta, non una virata stretta, piuttosto un giro di boa ragionato. Sotto a soffitti affrescati, tra elementi di design moderno e ceramiche nordiche mescolate a pezzi italiani “da corredo”, i tre incrociano i pensieri maturati nel corso di esperienze in Italia, Giappone, Germania, Australia, Inghilterra, Danimarca. Non facile la gestione in trittico dei fornelli, e il percorso a volte tradisce
la molteplicità di voci. Ma nel complesso funziona e colpisce per originalità, e per un’italianità che forse, proprio nell’ibridazione con i sapori del mondo, risulta più forte. Bisogna mangiarci per capire come l’animella con pasta di semi di zucca, zucca in saor, pompelmo e curcuma, in consommé di astice e bergamotto possa incastrarsi con una lepre in due servizi (uno postmoderno, l’altro francesissimo), con rognoni di coniglio in beurre blanc all’angostura e vermut, puntarelle e colatura di alici, e con eccezionali ravioli ripieni di maionese di lievito madre. Lievito madre, sì: il pane, cotto in cocotte di ghisa in un forno Rational, è notevole, e sarà protagonista di un nuovo progetto dei tre. Intanto è già arrivata la prima stella Michelin. – Laura Lazzaroni
Piazza del Giglio 2, Lucca – ristorantegiglio.com
TOSTO
Gianni Dezio fa parte a pieno titolo di quella nuova generazione che, senza troppi clamori, sta ridisegnando la cucina italiana. Tipo “tosto”, sicuramente, Gianni però non è persona da palcoscenico e riflettori altrimenti non avrebbe scelto di aprire il suo ristorante ad Atri, nell’entroterra teramano che, a parte le incredibili tradizioni gastronomiche del passato, non è esattamente come aprire al CityLife di Milano. E invece è lì che, un mattone alla volta, dal 2014 si è costruito un buon laboratorio di cucina d’autore informale, senza fronzoli e senza troppa retorica, mettendo assieme ciò che naturalmente c’è di buono in cucina e ragionandoci sopra. Si parte sempre dal prodotto ma, da buon allievo di Niko Romito, Dezio si muove poi intorno alla materia prima con laicità e libertà, intervenendo per esaltarne le caratteristiche. E ha ben chiaro ciò che in un menu deve guidare la salivazione e il piacere, tanto da prediligere gusti acidi e amari nei piatti che devono fare da apripista. Una cucina tutt’altro che piaciona ma che risulta gustosissima e stimolante, anche per via delle influenze culturali che qui sanno mescolare Abruzzo, Italia e Venezuela perché i geni e le esperienze (nonché la fidanzata) provengono proprio da questi territori. Contaminazioni, curiosità, voglia di crescere, rigore ed esplorazione sono strumenti più efficaci di alcune tecnologie in cucina, ed è così che nascono il ristretto di lenticchie affumicate, trippa e rapa bianca o la Terra dei Calanchi (dolce di foraging locale con liquirizia, frutti rossi, rapa rossa, capperi ed erbe spontanee). Dopodiché da Tosto si mangia anche una grandissima pasta fresca, uno dei must da non mancare, che nasce dalla collaborazione fra il sapiente gesto della mamma che la fa e lo spirito creativo di Gianni che la condisce, senza tabù culinari. Tipo la chitarra di zafferano, mandorla e mare o i tagliolini acqua e farina con seppia, lardo e rosmarino: assaggiare per capire. – Marco Bolasco
Via Angelo Probi 8, Atri TE – ristorantetosto.it
TRIPPA
Diego Rossi somiglia ai propri piatti. È esuberante, colorito, fragoroso, carnale e così sono le sue ricette: ricche, toste, ruspanti. Ma sotto questa apparenza folk c’è un controllo rigoroso, maniacale, tanto nell’uomo quanto nella cucina: disciplina mascherata da varietà. Rossi è un secchione travestito da Pierino. Un ingegnere che suona il rock. Trentatré anni compiuti da poco, baffo sparviero, corpo tatuato, parlata veronese, condivide parte della strada che va dalla formazione al successo con Juri Chiotti: prima tra le nevi del St. Hubertus di San Cassiano, alla corte di herr Niederkofler, poi al Delle Antiche Contrade di Cuneo che i due giovani conducono con verve e piglio sicuro. Poi si guardano negli occhi e pensano: bisogna tornare alla cose semplici. Lo fanno, però, in modo diverso: Chiotti risale le sue radici di montanaro, Rossi è una belva sociale e punta diritto alla big city, Milan. Così – assieme a Pietro Caroli – fonda Trippa, la neo-trattoria più amata e imitata degli ultimi tempi: aria retrò, colori senape, vecchie cose, ricette che affondano nella storia italiana (veneta e piemontese soprattutto). E quando arrivano i piatti – il fegato alla veneziana o l’insalata di rape rosse con radicchio tardivo (e arance, melograno, castelmagno e sommacco), i tortelli di broccoletto di Custoza, cervella e tartufo nero o i capunet di animelle, il suo celebre vitello tonnato o la battuta con le nocciole – si vede che ogni singola materia prima è stata scelta con cura ossessiva da questo cuoco che ha palato e cultura. E anche presenza: è fotogenico, il ragazzo, sa comunicare per icone – la sua celebre banda- na, il suo celebre cappello, le sue celebre ciabatte da piscina – ed è astuto nello scegliere le trasferte, i congressi, le ospitate più giuste e funzionali al proprio percorso. Del resto è proprio questo che significa essere pop. – Luca Iaccarino
Via Giorgio Vasari 1, Milano – trippamilano.it
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