Common Threads

Reem Kassis e Michael Solomonov. Due cuochi, lei palestinese, lui israeliano. Food & Wine U.S. li ha riuniti a tavola per una cena che celebra l’amicizia, il dialogo e la condivisione

Il dibattito sulla pronuncia di “hummus” è ancora aperto. Secondo Reem Kassis, autrice del libro di ricette The Palestinian Table, la parola è associata a un suono simile a un sospiro: «haahmus»—un lirico mormorio arabo, a gola aperta. La stessa parola rimbomba quando è pronunciata da Michael Solomonov, lo chef israeliano di Zahav a Philadelphia: «Chhhhummuuuz», dice, con la lettera dell’alfabeto ebraico “heth” che domina il suono. Facendo schioccare la lingua, i due amici si punzecchiano su un argomento molto sentito da entrambi. È un mormorio o un rimbombo? È palestinese o israeliano? La soluzione al dibattito è ancora molto lontana. Kassis e Solomonov sono seduti al tavolo della colazione a Congdon’s Point, un meraviglioso cottage sulla punta di una penisola che si protende nel mare da Shelter Island, nello stato di New York. Sarebbe superficiale dire che sembra strano trovarli seduti allo stesso tavolo, questa mattina, e forse riduttivo definirlo emozionante. In fondo, i sapori delle rispettive culture hanno degli elementi in comune, anche se è un parallelismo sempre affrontato con cautela. 

Basta tirare un poco la corda e subito emergono interrogativi complessi: da dove provengono le tradizioni culinarie del Medio Oriente? Come sono arrivate lì? Come si sono evolute? A chi appartengono? «La prima volta che sono stata da Zahav, ero una studentessa della Wharthon University», ricorda Kassis, che è cresciuta in una famiglia palestinese a Gerusalemme. «In menu c’era il freekeh, un piatto che mi faceva venire nostalgia di casa. Ricordo la frustrazione che derivava dall’aver mangiato il miglior piatto palestinese, negli Stati Uniti, in un ristorante israeliano». Quando è uscito il suo libro, lo scorso autunno, lei ne ha spedito una copia a Solomonov, con un messaggio riguardante il freekeh. «Penso che il cibo ci dia un’opportunità di comunicare dove altri argomenti hanno fallito», spiega lei, a proposito del suo gesto. «La cucina è un modo di mantenerci legati alla nostra identità, soprattutto quando ci sentiamo minacciati. Come palestinesi, quando qualcuno ci dice “Voi non esistete”, noi possiamo fare riferimento alla nostra cucina. Ci fa sentire uniti e ci ricollega alle nostre radici». Solomonov ricevette il libro la sera prima di tenere una conferenza sulla cucina israeliana, e il suo punto di vista cambiò. «Non potevo guardare negli occhi questa persona e dire: “Io, come israeliano, ho diritto all’indipendenza, ma tu no”», afferma lui. «Ho avuto molti successi nella mia carriera, questo però è stato sicuramente il momento più importante di tutti» Da quel giorno è nato qualcosa di speciale. Non diplomazia. Amicizia. 

Passato un anno, eccoli a Congdon’s Point, a dare vita insieme a una cena festiva per entrambe le loro famiglie. Il marito di Kassis, Albert Muaddi, era arrivato con entrambi i figli, Hala e Yasmeen, e suo fratello Jawad era con sua moglie Christine e la figlia Violet. Solomonov aveva portato i suoi figli, David e Lucas, oltre ad amici e collaboratori: Dorothy Kalins, che aveva realizzato i suoi due libri di cucina, incluso quello appena uscito, Israeli Soul, e suo marito, il filmmaker Roger Sherman, che aveva ripreso lo chef nel suo documentario del 2016: In Search of Israeli Cuisine. Sono solo le 9 di mattina e la cucina già profuma di grasso d’agnello e fieno greco, un inebriante sinfonia di aromi che si intensifica nell’arco della giornata. I cinque bambini si rincorrono senza sosta per tutta la casa. «Sembra retorico, ma anche nei momenti in cui io e Reem non ci troviamo d’accordo, vedere tanta sintonia tra i nostri ragazzi rende più difficile gettare la spugna o pensare che non ne valga la pena», racconta Solomonov. «Il compromesso è vita: è ciò che dobbiamo perseguire». Al momento, però, bisogna condividere lo spazio in cucina, e c’è ancora molto lavoro da fare. Kassis ha messo a mollo il riso jasmine per l’hashweh, i chicchi profumati dalla sua polvere alle nove spezie —cannella, macis, coriandolo e cardamomo. Solomonov sta insaporendo delle costolette di manzo con hawaij, un mix di spezie yemenita con curcuma, cumino e pepe nero, prima di infornarle con l’agnello di Kassis. 

Lavorano insieme le foglie di vite —cavolo ripieno, in realtà, cotto al vapore alla maniera persiana, con succo di cranberry invece che di melograno. «Volevamo preparare qualcosa che fosse al tempo stesso israeliano e palestinese, ma anche nessuno dei due», spiega Solomonov. «Questo piatto è ciò che capiterebbe se catapultassimo un soldato ottomano nel Sud degli Stati Uniti». Lei irrora la torta al formaggio e pasta kataifi di profumato sciroppo ai fiori d’arancio. Lui mette su Midnite Vultures di Beck e spiana l’impasto per le boureka, fagottini salati ripieni di patata dolce e feta. È quasi ora di cena e l’agnello sta riposando, un grande cosciotto luccicante su una montagnola di riso hashweh. Solomonov stacca dei pezzetti di grasso sfrigolante e se li gusta, mentre versa cucchiaiate di schug sulle costine. Le nuvole sono basse su Gardiners Bay e filtrano le ultime luci del giorno quando Solomonov e Kassis portano in tavola i loro secondi succulenti. I ragazzi si agitano, tutti hanno l’acquolina in bocca. I vassoi passano di mano in mano, i piatti si accatastano e nessuno si chiede chi abbia preparato cosa. Due famiglie attorno al tavolo, questa sera. Una casa comune.