Che strana lingua parla il mondo del vino. Sembra quasi un linguaggio cifrato, un codice interno. Tante volte c’è da chiedersi se parli per farsi capire o soltanto per farsi notare. Brutta bestia la vanità, finisce sempre per escludere anziché avvicinare. Il racconto sul vino e sulla sua storia produttiva ha fin qui affascinato attraverso picchi romantici, sentimenti bucolici che toccavano luoghi, paesaggi e storie di vita. Ma la descrizione di un vino nel bicchiere ha bisogno di meno poesia e più sostanza. Meno pathos, meno metafore, più termini concreti e chiari per tutti. Sempre che l’obiettivo sia quello di fare divulgazione e non di lodare se stessi attraverso autobiografie e code di pavone. O con l’uso autocelebrativo dell’incenso al posto del deodorante. La narrazione e il racconto sono una cosa, mentre la divulgazione è un altro paio di maniche. Il vino è un prodotto della natura e della mano dell’uomo, il quale farebbe meglio a non appesantirne la descrizione attraverso parole di facile seduzione – quasi sempre labile, transitoria – difficili da capire. Un sorso di vino è più concreto che concettuale, più reale e autentico che ideale.
E allora perché non descriverlo con parole semplici, comuni a tutti e facili da ricordare? Quando si degusta è più utile partire chiarendo subito se un vino ci piace ed è ben fatto, oppure no. Spiegare le ragioni partendo da un indubitabile assioma: il vino è il risultato della fermentazione di un frutto che si chiama uva, della tecnologia e della mano dell’uomo. Questi semplici parametri hanno a che fare con le parole buono/cattivo e ben fatto/fatto male. È un linguaggio universale che può essere traducibile in qualsiasi lingua del mondo senza imporre lo sforzo di accostare un bicchiere di vino a campi semantici incomprensibili, talvolta paradossali. Sarebbe utile per tutti, principalmente a chi fa divulgazione, così eviterebbe di parlare soltanto a se stesso. Di solito chi parla da solo non gode di buona fama e non ha nemmeno tanti amici. Mettere il naso nel bicchiere e riferire “sensazioni minerali” per descrivere quel vino è diventato piuttosto frequente. Ma è una sciocchezza in quanto la mineralità è un aspetto tattile e, inoltre, le sostanze contenute nel vino appartengono alla chimica organica. I minerali no, non si sciolgono nella saliva, non hanno sapore e non sono volatili, quindi non hanno odore. Definire la “croccantezza” di un vino fa sentire molto esperti e navigati attraverso un francesismo evocativo di qualcosa di solido che sgretola sotto i denti.
Ma è un concetto fuorviante essendo il vino notoriamente liquido. Un’altra fra le numerose perle del vocabolario enologico degli ultimi anni è l’espressione “bella acidità”. Che cosa significa? Sembrerebbe più vicina all’ossimoro che alla realtà, ma non è una questione di retorica e stilistica. Abbiamo un liquido nel bicchiere che, innanzitutto, deve presentare equilibrio e armonia fra le sue componenti. Quindi se l’elemento acidità rispetto agli altri emerge al punto di farci scomodare un’espressione del genere, è molto probabile che quel vino non sia così buono e nemmeno ben fatto. Forse è solo un vino sbilanciato. E d’altra parte chiunque definisca “acida” un’altra persona, non lo fa con l’intenzione di rivolgerle un complimento. L’apertura di una bottiglia considerata ancora troppo giovane, negli ultimi anni viene apostrofata come “infanticidio”. E questo è in assoluto il paradigma dell’accostamento a un’immagine orribile e imbarazzante che, oltretutto, non spiega e non fa nemmeno ridere. Insomma la sinestesia – mi riferisco alla figura retorica, non agli studi derivati dalla psicologia percettiva – è diventata un campo obbligatorio quando si parla di vino. Ma è anche la maniera migliore per generare dubbi anziché spiegare, e per diffondere a macchia d’olio nozioni fuorvianti. Il tutto in salsa di protagonismo montato a frusta come la panna.
Perché un po’ di autocelebrazione bisogna metterla sempre in conto quando si incrocia qualcuno che parla di vino. È come se il linguaggio di settore subisse la soggezione di trattare un argomento “leggero”, più vicino alla goliardia che all’ambito intellettuale. Perciò, un conto è sedersi in cattedra a parlare di storia dell’arte, altro è trattare un tema che ha più semplicemente a che fare con l’agricoltura e con la buona tavola. E siccome queste due caratteristiche rendono il discorso alla portata di tutti, c’è chi preferisce circoscriverlo a una nicchia esclusiva destinata a pochi, non di certo alle masse. E poi ci sono i sinonimi perché le abitudini, anche alle parole, dopo un po’ stancano. Abbiamo bisogno di perdere la testa per qualcosa di nuovo, per termini che lì per lì ci sembrano una figata ma che fini- ranno in poco tempo nell’archivio dell’inutile, in mezzo ai registri della noia. Oggi lo “spunto” si chiama “volatile” e colui che definisce in pubblico un vino “abboccato” fa un po’ ridere i polli. Il perlage è diventato ufficialmente “la bolla” e il vino macerato dobbiamo chiamarlo orange wine. È preferibile, a quanto pare. Ma il vino bianco che comprava mio nonno cinquant’anni fa era indiscutibilmente un “orange wine”, solo che nessuno lo chiamava così. Infine la parola frutto, di cui tutti conosciamo il significato, dov’è finita? Nel dimenticatoio, non la usa più nessuno.
Eppure l’uva è un frutto e il vino, fino a prova contraria, è fatto con l’uva. Negli anni ‘70, quando Luigi Veronelli spiegava il vino col suo stile un po’ anarchico e un’idea encomiabile nazional-popolare, circolava una bellissima collana dal titolo “I jolly della buona cucina” diretta da Luigi Carnacina. In coda alle ricette dei piatti si suggerivano gli abbinamenti più indicati con i vini di tutti i territori della nostra Penisola. Per intenderci, sto parlando dei quaderni di ricette dalla copertina a scacchi, rilegati con la spirale, di cui le nostre mamme (o nonne per i lettori più giovani) attendevano con ansia l’uscita mensile che ricevevano con una spedizione postale. Niente rete, niente web, niente di niente. Lì sopra Franco Zingales per inquadrare e descrivere una buona Barbera d’Alba utilizzava questi termini, in estrema e chiarissima sintesi: “colore rosso, violaceo intenso” (chiaro per tutti, c’è poco da capire). “Profumo vinoso” (e infatti si tratta di vino), “sapore pieno e corposo, gradazione alcolica, temperatura di servizio” e bla, bla, bla. Tutto molto semplice.
Oggi quella stessa Barbera d’Alba – al netto di aggettivi rivolti al colore che tanto non interessano più nessuno – la descriveremmo più o meno così: “bocca piena” (in che senso piena? Il vino si sorseggia, non è mica la borraccia dell’acqua di un ciclista); “tensione acida impressionante” (beh, questo mi dispiace, però se sei così teso e acido che fai impressione, come puoi essere anche buono? Io, per sicurezza, mi tengo alla larga); “minerale, salino, croccante” (tipo che pensavo di bere, e invece mi tocca masticare la ghiaia? Se penso a quanto mi costa una corona nuova dal dentista). Ancora, sempre in fase di analisi gustativa: “lungo, lunghissimo, persistente, infinito” (che maleducato, alla tua età non hai ancora capito quand’è che te ne devi andare). Probabilmente, sul finale, la scheda di degustazione presenterà il guaio peggiore, la vera brutta notizia perché, ammettiamolo, quella Barbera d’Alba, così descritta, non è il massimo dell’avvenenza: “longevo, ha una vita davanti” (proprio vero, l’erba cattiva non muore mai). Voto: 96/100. Ah, ma quindi era un vino buonissimo? Mi sa che non ho capito niente. Lo compro? Forse no.
I minerali non hanno odore e non hanno sapore.
Forse l’uva appena colta può avere una vaga sensazione di croccantezza sulla buccia. Soprattutto se l’assaggiate con tutti i raspi.
Il vino non è acido. L’acidità è una delle tre componenti – assieme all’alcolicità e al residuo secco – che devono essere in armonia, in equilibrio. Se spicca solo l’acidità, quel vino non è buono.
Accostamento tremendo a un campo semantico orribile. Oltretutto un vino presente sul mercato può essere giovane, ma non troppo giovane. Altrimenti dovremmo pensare che il produttore che l’ha fatto uscire sia una persona poco seria.
Ma quale teso, non scherziamo! Se ne sta tutto il tempo a riposare coricato al buio. La tensione e lo stress ce li abbiamo noi, soprattutto quando apriamo una bottiglia che sa di tappo.
Il vino non vibra, quindi i casi sono due: o chiedete al vicino di casa la cortesia di abbassare lo stereo, o avete alzato troppo il gomito.
È una parola che porta fuori strada. Dipende da cosa si intende per eleganza. Può avere senso definire elegante un vino sottile. Molti però confondono l’eleganza con l’eccessiva magrezza e qualcuno anche con l’anoressia. Un vino totalmente privo di corpo è un vino vuoto e pertanto squilibrato.
È come dare a uno dell’“omino” o al Prosecco del “prosecchino”. Non si fa.
È un po’ troppo generico. Se proprio non vi escono le parole spumante, Champagne, Prosecco, Franciacorta, Trentodoc e via dicendo, usate sparkling wine. È ugualmente generico ma almeno vi capiscono in tutto il mondo.
È una definizione notoriamente fuorviante. Esistono diverse certificazioni per produrre vini senza o con pochissimo uso di additivi, sia in vigna che in cantina. Ma il vino non è naturale e – a proposito di natura – anche le vigne come le intendiamo noi non sono poi così naturali visto che per produrre vino le trasformiamo in qualcosa che ricorda i bonsai. La vigna naturalmente è una liana, come quella di Tarzan.
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