«Mi consiglieresti una buona trattoria?» è una di quelle cose che ci è capitato di sentirci chiedere centinaia di volte. Eppure non è sempre facile rispondere: quella che è di fatto una delle unità identitarie fondamentali del nostro mondo del cibo, la trattoria (o l’osteria, visto che in una parte del Paese è vezzosamente chiamata così), non sempre è associabile alla qualità. Più facile associarla al mangiare popolare, alla quantità, alla cucina di territorio. Ma le cose stanno cambiando e c’è tanta voglia di evolvere anche in questo mondo apparentemente legato al passato e al folclore. La trattoria sta vivendo una nuova primavera fatta di qualità della materia prima, di tecnica in cucina, di giovani imprenditori che non necessariamente vogliono dipendere dalla nonna in cucina. Sebbene la cultura familiare, in questo mondo, rappresenti sempre un punto imprescindibile da cui partire. Ma la tradizione, come diceva Mahler, “è custodia del fuoco, non adorazione della cenere”. Quello che però non era ancora successo è che un cuoco creativo, possessore di un ristorante “stellato”, decidesse di dedicarsi alla progettazione di un’osteria tradizionale. In tanti hanno lavorato sui piatti della cucina regionale rivisitandola, altri hanno aperto locali più semplici, informali, quelli che si potrebbero chiamare bistrot. Ma nessuno si era cimentato con la riprogettazione del format originario: la trattoria trattoria.
Il primo, che lo ha appena fatto, è Adriano Baldassarre, chef del Tordomatto di Roma. D’altro canto Roma è nell’immaginario di molti uno dei luoghi topici di questo tipo di ristorazione, fra filetti di baccalà, carbonare, cacio e pepe e quinto quarto. Non lontano da San Giovanni, è dunque nata “l’Avvolgibile, trattoria popolare”. Un luogo che dichiara i propri intenti subito, a partire dalle tovaglie a quadretti, dai vecchi mobili e dall’atmosfera disincantata. Baldassarre nel pensare la sua trattoria ha voluto rifarsi all’immaginario comune della trattoria, tanto che guardandola da fuori mai penseresti che si tratta di opera d’autore. E neanche il menu, i piatti, portano segni visibili dello chef: niente ravioli ripieni di cacio e pepe né terrine di coda alla vaccinara: qui si va sul supplì, la pasta e fagioli, i saltimbocca alla romana e le cicorie strascinate. E ancora i fagioli con le cotiche, le puntarelle e la macedonia. E neanche a dire dell’impiattamento, perché è tutto piuttosto spartano e i piatti utilizzati sono quelli di ceramica bianca, pesanti e senza decorazioni. E allora? E allora il tocco del cuoco si esprime nei profumi, nei sapori, nelle cotture praticamente perfette, nel fatto che dietro il muro della cucina ci sono ragazzi preparatissimi e strumenti all’avanguardia, con una regia silenziosa, quella di Adriano e di Fabrizio Macchioni, il suo socio storico, che hanno le idee chiare. L’Avvolgibile – e anche il nome fa il verso ai bei tempi andati – è un luogo di sola e assoluta sostanza. È la dimostrazione che si può fare ottima cucina senza necessariamente doverla rivisitare. Che la tradizione può andare a braccetto con la tecnica senza che questa si trasformi in esercizio di stile.
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