Sapore di sale

Dalle Cinque Terre alle Eolie, storie di vini (e vigneron) di mare

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Tra gli aggettivi in voga nella descrizione di un vino – che sia bianco o rosso – oggi troviamo “salino”, “sapido”, “salmastro”, finanche “iodato”. Sentori che piacciono perché donano “vibrazione” e freschezza alla beva. Una sensazione di schiocco della lingua che ha avuto la meglio sulla morbidezza. Così, nell’ondivago dizionario enoico, anche il termine “saporito” finisce per caratterizzare un calice. Secondo alcuni ciò è dovuto ai terreni sabbiosi, per altri alle particelle marine trasportate dai venti nel vigneto; c’è chi invece addebita il risultato a sapienti – e furbe – tecniche di cantina. La risposta in realtà non c’è, almeno non quella scientifica. E se a dirlo è il Professor Attilio Scienza – Ordinario di Viticoltura presso la Facoltà di Agraria dell’Università Statale di Milano e tra i massimi esperti mondiali sul tema – c’è da crederci. «Difficile provare una corrispondenza certa – spiega il Professore – tra sensazioni organolettiche del vino e caratteri marini del vigneto. Certo è che dal punto di vista del profilo sanitario queste peculiarità non sempre sono benefiche. La pesante umidità e i venti ricchi di sale causano marciumi e bruciature dell’uva. Ma si tratta di venti capaci anche di ripulire l’aria più velocemente dopo gli acquazzoni estivi. Inoltre il mare ha la capacità di mitigare le temperature, diminuendo lo scarto delle escursioni termiche durante la maturazione delle uve. Per fortuna ci pensano le brezze e i venti, quando non è scirocco, a rinfrescare i vigneti».

Maurizio Gily, agronomo e docente presso la Facoltà di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, invita a non focalizzare tanto l’attenzione sulle escursioni termiche giorno-notte, quanto su quelle stagionali: «Il Mediterraneo è un luogo caldo, il che consente di mitigare le differenze di temperatura tra l’inverno e l’estate, perché il mare è più caldo della terra. Quella delle escursioni termiche è una questione a mio avviso enfatizzata. Molto più importante è poter contare su temperature adatte alla migliore maturazione, ovvero venticinque gradi di giorno e dieci di notte, che è la coppia ideale per i rossi in particolare. Valori del genere sono molto più comuni in zone limitrofe al mare». Andrea Gabbrielli, giornalista del vino e vero “insulomane” – per usare un’espressione di Lawrence Durrell – alle isole ha dedicato il libro “Il vino e il mare”, convinto che i vini che nascono lì abbiano una ricchezza di espressioni ineguagliabile: «Nell’Italia insulare (un sesto dell’intera superficie del Paese, nda) si fa vino seguendo pratiche agricole e sociali simili: sulle isole si coltivano antichi vitigni autoctoni, quasi delle enclavi “contro” gli internazionali, e in molte hanno mantenuto il sistema di allevamento ad alberello, il più adatto per i climi secchi e ventosi; i terrazzamenti, vecchi e ripristinati, le avvinghiano come ragnatele; la biodiversità complessa che le popola fa delle isole luoghi di eccellenze produttive, dove il vino è stato per secoli la prima voce commerciale. Ha ragione lo storico Fernand Braudel a definire il Mediterraneo una pianura liquida circondata dalla vite, dall’olio e dai fichi».

La viticoltura mediterranea e insulare ha molte caratteristiche comuni, ma ad arricchirla di diversità sono le storie delle donne e degli uomini che hanno deciso di fare vino non lontano dal mare. Come si diceva all’inizio, manca una ricerca scientifica apposita ed è all’osservazione e alla pratica empiriche che bisogna rifarsi per comprendere il nesso tra questo ambiente e il vino. «A chi mi fa visita in cantina dico sempre che se non c’è la nota salata non è un vino delle Cinque Terre». Samuele Heydi Bonanini è categorico: il nesso è imprescindibile, perché a dominare è il “terroir”, anche se liquido: «Coltivo quattro ettari di vigna tutti fronte mare tra Riomaggiore e Monterosso – albarola, bosco, trebbiana (sì, detto al femminile, ndr), rossese, piccabon, bonamico e conosco le mareggiate che in più occasioni mi hanno portato via le prime file di vigna; c’è da combattere con la cappa di umido ed essere pronti con i trattamenti (solo zolfo); fare attenzione all’erosione perché il mare gratta la collina e se la porta via; si lavora con un occhio alla pianta e l’altra al burrone con il solo aiuto della cremagliera. Però il bicchiere ti ripaga della fatica: dal bianco più semplice fino allo Sciacchetrà, il mare si mischia al lentisco, al rosmarino, alla ginestra fino a sentirci l’acciuga». Ora c’è anche un vino “isolano” perché Heydi sta vinificando l’uva di Palmaria, l’isola di fronte a Portovenere, piante di vermentino, albarola e trebbiana, per un bianco in 1.300 pezzi, il Palmarea che, neanche imbottigliato, è stato già tutto venduto.

In quella Liguria che sa già di Toscana, nella Doc Colli di Luni, l’azienda Giacomelli – a Castelnuovo Magra – ha puntato (quasi) tutto sul vermentino, il vino di mare per eccellenza: «Io direi che è un’uva che si nutre di mare – sottolinea il titolare Roberto Petacchi – che compensa quella sua naturale carenza di acidità con la salinità, che tiene testa al vento, come il Libeccio, che asciuga l’umidità. Dico sempre che è lo stesso vento che prosegue per Parma e che facilita la stagionatura dei salumi». Chi conosce come le sue tasche Bolgheri è Leonardo Raspini, direttore generale di Tenuta Argentiera, distante dal mare meno di due chilometri: «Bolgheri è famosa per avere una luce intensissima, dovuta al riflesso del sole sull’acqua. Questo per la pianta vuol dire contare su una sorta di fotosintesi al quadrato e una piena maturazione dei frutti che beneficiano di tanta luce ma di meno calore, trattandosi di luminosità indiretta». Bolgherese di adozione è Fabio Motta, la cui omonima azienda porta nel logo un’onda: «Se parliamo di vino, l’ambiente marittimo torna come cifra stilistica, lo ritrovi in una pienezza di beva, in un calore che non è pesantezza, in un tannino spesso dolce e maturo, quasi mai nervoso». C’è chi di mari ne ha addirittura due. La cantina La Sibilla della famiglia Di Meo a Bacoli si trova tra il golfo di Pozzuoli e quello di Napoli, con in mezzo anche il lago Fusaro, quasi come se l’azienda galleggiasse sulle acque: «Tutte le nostre vigne, soprattutto falanghina e piedirosso – spiega Vincenzo Di Meo – poggiano su una falda acquifera termale calda e salata, e i terreni sono un misto di sabbie e ceneri vulcaniche sistemati su roccia tufacea che funge da spugna. 

Così, anche nei periodi di siccità maggiori, la pianta non soffre la penuria d’acqua». Quanto questo fenomeno sia invasivo lo si capisce dalla visita della vecchia cantina, una cisterna romana dove le bottiglie lasciate a invecchiare sono coperte da un manto di sale che si forma per evaporazione. Altro terreno vulcanico è quello dell’isola di Salina, nell’arcipelago eoliano, dove dimora da sempre una sola uva, la malvasia di Lipari. Alessandro Accardi, uno degli agronomi dell’azienda siciliana Tasca d’Almerita, è a suo agio tra vigne e mare: «L’ambiente marino è un paradosso felice perché la malvasia viene bene solo qua; ha bisogno di calore, luce e aria salmastra. Tant’è che a certe altitudini non dà i medesimi risultati». Ancora più estremo è l’habitat del grillo sull’isola di Mozia, dove i Tasca curano i vigneti della Fondazione Whitaker: «Le radici delle piante – prosegue Accardi – attingono dall’acqua di mare e il terroir sovrasta la varietà, diventa quasi ingombrante. L’inizio della vendemmia coincide con il lavoro nelle saline dello Stagnone, con i salinari che spezzano il sale cristallizzato (ne parliamo sul nostro sito)». Di sale parla spesso anche Marilena Barbera, viticoltrice a Menfi: «Questa è la storia che porto avanti, quella di una viticoltura di mare che è poi la vera viticoltura siciliana, negli ultimi trent’anni spostata invece all’interno ritenendo che il know how portato da fuori, Toscana in primis, fosse l’unico legittimo. Eppure le prime testimonianze di vinaccioli le troviamo sull’isola di Salina». L’uva di mare per Marilena è l’inzolia – che sul continente diventa ansonica – che poggia su risorgive salmastre ed è sferzata dai venti: «Ma non a caso – continua – l’inzolia ha una buccia spessa per proteggersi e ha un colore dorato perché ama questa luce che sa di Africa. 

Sono anche convinta che il sale agisca come antibatterico contro le malattie fungine». Da due anni la Barbera crea un piccolo miracolo, un vino da piante selvatiche rinvenute sulle dune delle spiagge di Menfi. Sono liane striscianti che danno grappoli nascosti sotto la sabbia: «Stiamo parlando di sessanta chili d’uva per una ventina di bottiglie, un vino che non esiste in pratica, ma un frutto cresciuto in un ambiente così estremo ha raggiunto i dieci gradi alcolici spontaneamente. Io lo trovo commovente». Dall’ansonica anche Cataldo Calabretta, viticoltore a Cirò Marina, in provincia di Crotone, tira fuori un bianco marittimo, con uve a trecento metri dalle acque dello Ionio: «La sua bassa acidità – spiega Cataldo – fa spiccare ancor di più la sapidità del vino ed è risaputo che le aree salmastre sono anche ricche di potassio, oltre che di sodio». La vigna a mare di Nino Barraco ha una caoticità funzionale: tralci e foglie sono affastellati e stretti con l’intento di proteggere il frutto – il grillo – dal troppo calore e dai venti. Un ecosistema produttivo a soli cinquanta metri dalla battigia a Marsala, in contrada Petrosino: «Una parola tanto di moda come “biodiversità” qui non te la puoi spendere, però c’è meno contaminazione, aria pulita grazie alle correnti. Più che il sale temo i venti che cerco di smorzare con i frangiventi. I vantaggi invece li trovo nel bicchiere, mi piace che questo vino sappia di alga e ostrica e sono convinto che anche i lieviti indigeni abbiano una vena salmastra». Nino Barraco non ha sempre pensato di fare il viticoltore. Da quando ha iniziato però non ha investito altrove: «Anzi, se ora tutti vanno sull’Etna, a me viene ancor più voglia di starmene al mare. Se sei bravo devi valorizzare quello che hai, non sarà una viticoltura di collina o di montagna a rendere migliori i tuoi vini. Quello che è certo è che siamo all’anno zero della ricerca scientifica sulle corrispondenze tra ambiente marino e vini. Magari questo articolo smuoverà qualcosa».

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