PIZZAMANIA

Libri, classifiche, trasmissioni televisive, premi e concorsi mondiali. E le inevitabili polemiche che ne conseguono, che non fanno che accrescerne il successo. Il mondo della pizza - in Italia e non solo - non è mai stato tanto dinamico, complesso e interessante

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Per qualcuno esistono ancora solo Margherita e Marinara o poco più, per altri è lecito lasciare le porte aperte alla sperimentazione. Per alcuni deve essere soffice, con il bordo alto, da piegare e mangiare con le mani, per altri sottile e croccante, che stia ben dritta. C’è chi pensa che la tonda sia la sola forma ammissibile, e chi è per la rettangolare ma anche conica o triangolare. Quel che è certo è che la pizza piace a tutti, sempre di più. E se fino a qualche anno fa era guardata con altezzosità da alcuni come simbolo di un mangiare cheap, dozzinale, non meritevole di attenzione – salvo poi rifugiarvisi come comfort food d’elezione – oggi è al centro del discorso gastronomico, protagonista di libri, congressi, eventi, programmi televisivi. E, soprattutto, in costante evoluzione. Dati per assodati canoni e termini delle tipologie più note – fissati ad esempio dal disciplinare della Pizza Napoletana STG, da quello per l’ottenimento del marchio collettivo “Verace Pizza Napoletana” fissato all’AVPN e appena aggiornato, o dal recente riconoscimento come Prodotto Agroalimentare Tradizionale per la “Pizza Bianca Romana alla Pala del Fornaio” –, i pizzaioli hanno imparato (e in certi casi, insegnato) ad andare oltre. Non solo sostituendo all’esperienza empirica meticolose formule scientifiche per impasti a prova di digeribilità e affiancandosi agli chef per apprendere l’arte dell’equilibrio gustativo; ma anche per ragionare, sperimentare, azzardare, talvolta stupire e soprattutto far godere chi mangia. Perché in ogni caso una pizza ben fatta – di qualunque foggia, consistenza, sapore – deve essere buona. Così oggi, andare in pizzeria può rimanere una scelta rassicurante o diventare una vera e propria “esperienza”. Lasciando da parte la tradizione più ortodossa e i suoi interpreti, proviamo a tracciare un quadro – per forza di cose incompleto – dell’attuale “mondo pizza” italiano, senza dimenticare che il disco di pasta è ormai un vero e proprio universale culturale pronto a essere vestito da ingredienti e usanze di ogni latitudine. Ché il cornicione, più o meno sviluppato, è sempre stato un argine solo per non disperdere il condimento, mai per le idee. 

Chi innova a partire dalla tradizione 

C’è chi decide di partire proprio dalla tradizione per percorrere nuove vie e creare pizze sempre più buone. Questo vale soprattutto per la Pizza Napoletana, la cui storia è la più lunga e documentata. E per cui si può fissare un prima e un dopo, e soprattutto un chi: è il 1994 quando Enzo Coccia, figlio di pizzaioli del popolare e movimentato Rione Stella, decide di portare avanti la tradizione di famiglia cambiando quartiere e stile. Apre dunque il primo indirizzo de La Notizia a metà strada tra il Vomero e Posillipo, e inizia a lavorare su impasti (digeribili, non più frutto di lievitazioni lampo) e condimenti, mettendo per la prima volta sul disco prodotti con “nome e cognome”, che si tratti di mozzarella di bufala Dop, pomodori del piennolo, olio extravergine, alici di Cetara. Coccia apre così la strada a una pizza che – se non è ancora e non sarà mai “gourmet” – dimostra a tutti il proprio valore gastronomico. Sono tanti i pizzaioli partenopei che l’hanno seguita, ognuno a modo suo. Da Guglielmo Vuolo, che usa l’acqua di mare (sterilizzata) per impasti più salutari e che nei diversi locali a sua firma propone una vera e propria “carta dei pomodori” da cui scegliere tra varietà autoctone quella con cui condire la propria pizza, a Ciro Salvo che, approdato anche a Londra oltre che a Napoli con il suo 50Kalò, grazie allo studio continuo su fermentazioni e farine è da tutti consi- derato tra i più grandi maestri dell’impasto e tra i migliori rappresentanti di quell’“Arte tradizionale del pizzaiuolo napoletano” di recente riconosciuta Patrimonio Immateriale UNESCO. Sarebbero tanti naturalmente i nomi da menzionare, in città e non solo – per lo meno quelli di Gianfranco Iervolino, Diego Vitagliano, Giuseppe Pignalosa; e perfino il lombardo Corrado Scaglione che su un’eccellente Napoletana ha puntato per la sua Enosteria Lipen a Triuggio, in Brianza – facendo comunque torto a molti. Ma forse uno dei dati più interessanti è proprio questo: se in passato era difficile mangiare una buona pizza appena fuori dalla tangenziale di Napoli, oggi tutte le province campane hanno i loro maestri, con stili che rappresentano spesso l’evoluzione del “Napoletano” classico. Dalle soffici e voluttuose (anche nei condimenti) pizze di Francesco Martucci a I Masanielli, che sembrano quasi voler rivaleggiare con i capolavori conservati nella dirimpettaia Reggia di Caserta, alle interessanti sperimentazioni del giovane Valentino Tafuri da 3Voglie a Battipaglia, nate dalla contaminazione tra pizza, panificazione e boulangerie di stampo francese. Altrettanto interessante è il panorama della capitale, dove da un lato si è affermato e perfezionato lo stile “né romano né napoletano” proposto per primo da Giancarlo Casa alla Gatta Mangiona; dall’altro, sta tornando alla ribalta la “romana” classica, sottile e scrocchiarella ma a patto che sia ben lievitata, ben cotta e ben condita: l’esempio top al momento è quella di Jacopo Mercuro e Mirko Rizzo da 180 g a Centocelle, quartiere di periferia dove è in atto una rinascita enogastronomica. Ma la città che in questo momento forse ama di più la pizza – oltre Napoli – è Milano. Negli ultimi anni c’è stato un vero boom di aperture che hanno decisamente innalzato il livello cittadino: dalle sedi di pizzerie extra-regionali come Da Zero, Sorbillo o Berberè alle pizze “napoletane contemporanee” d’insegne locali come Cocciuto, Marghe o Lievità – con diversi indirizzi – fino alle pizze alla pala di Simone Lombardi da Crosta e alle romane veraci (tonde e in teglia) portate su da Jacopo Mercuro con Pizzottella. 

Gli sperimentatori, al lavoro sulle forme della pizza 

C’è chi, scrollandosi di dosso manicheismi e tradizioni ingombranti – pur riconoscendone l’importanza – ha deciso di seguire la strada della sperimentazione, trovando nuove tecniche, inedite consistenze e perfino nuove forme per la pizza. O azzardando condimenti fin qui considerati come eresie. È il caso soprattutto del “PizzaRicercatore” veneto Renato Bosco, che a San Martino Buon Albergo sperimenta con farine, pasta madre e fermentazioni non solo per rendere sempre più leggero e croccante il suo Crunch (pizza in teglia alla romana dall’impasto ad alta idratazione) ma anche per esplorare e superare i confini di quella che chiamiamo comunemente “pizza”: sono nate così, ad esempio, L’Aria di Pane (alta pizza tonda dall’impasto incredibilmente soffice) o la Mozzarella di Pane che, immersa nell’acqua di governo della mozzarella e poi cotta al vapore prima di essere tagliata e farcita, è a metà tra un panino e il bao orientale. A Roma invece, Stefano Callegari – l’inventore del Trapizzino, la geniale “tasca” di focaccia triangolare farcita con i veraci sughi della tradizione romanesca – gioca spesso sulla contaminazione tra pizza e cucina (popolare, per lo più) con creazioni come la “lasagna di pizza”, formata sovrapponendo e lasciando riposare 4 o 5 pizze ben condite fino a che non assumano una consistenza quasi cremosa. Poi c’è Franco Pepe, il pizzaiolo di Caiazzo che potrebbe figurare in ogni categoria di questo tentativo di tassonomia della pizza contemporanea, al tempo stesso attento custode della tradizione e innovatore instancabile: da Pepe in Grani (e nella nuova sala Authentica, che porta in pizzeria il concetto dello Chef’s Table) propone tanto l’Acquerello Capriccioso – ideata in esclusiva per noi, è una reinterpretazione in chiave moderna e attenta di un grande classico della pizza “popolare” (per non dire dozzinale), che invita i commensali a comporla come fosse un quadro sistemando sulla base di fiordilatte, prosciutto cotto e carciofini di Paestum delle cialde croccanti di pomodoro San Marzano, polvere d’olive caiazzane, capperi disidratati, champignon fritti e un olio al basilico – quanto l’Ananascosta, cono di pizza fritta farcito con fonduta di Grana Padano Dop, prosciutto crudo San Daniele, ananas e polvere di liquirizia. Nel cuore di Napoli, al rione Sanità, il giovane e irriverente Ciro Oliva affianca alle buonissime pizze “veraci” e a quelle cotte nel ruoto secondo tradizione, pure panini, bagel e friselle (il classico “biscotto” di pane croccante da ammollare e condire con olio e pomodoro) in versione pizza o in formato micro con condimenti originali come lenticchie, rosmarino, timo al limone, nocciola e olio extravergine. 

Quando il pizzaiolo incontra lo chef, e viceversa 

Una spinta importante all’evoluzione della pizza arriva dall’incontro tra pizzaioli e chef. Se sono ormai tante le pizze “stellate” nate dal loro lavoro congiunto, applicando le regole della cucina – equilibrio, contrasti, consistenze – alla pizzeria, sono diversi i pizzaioli che proseguono in autonomia il percorso di ricerca gastronomica. Il pioniere in tal senso è il veneto Simone Padoan. Dal 2007 a I Tigli – il locale di San Bonifacio (VR) più simile a un ristorante che a una pizzeria, dal servizio alla cucina a vista – propone un nuovo concetto di pizza in cui l’impasto fa da base (in maniera tutt’altro che disgiunta) a condimenti essenziali ma perfetti come l’imitatissimo binomio tra crudo e burrata, o elaborati e bilanciati con estrema cura come nel caso di quella con fior di latte, cime di rapa, anguilla laccata e cipolla in carpione con aceto di more. Segue dichiaratamente le sue orme, ma in modo personale, il giovane pizzaiolo sardo Sandro Cubeddu che da ReMi a Sassari manda in tavola pizze e focacce a base di impasti diversi e ingredienti soprattutto isolani, spesso lavorati in cucina, come nella focaccia “innovativa” con ventresca di tonno, bietole al cartoccio, salsa di soia con melassa di cipolla e aceto affumicato. A Cagliari lo chef Pierluigi Fais – patron del ristorante Josto – guida anche Framento, accogliente pizzeria dove i due mondi s’incontrano in pizze dall’impasto leggero e croccante e dai condimenti creativi come nella Bon Tonn Refresh: fiordilatte, tonno rosso sottolio, verza e maionese al lime. Inizia come chef, prima di dedicarsi anima e corpo alla pizza, anche il “pizza hero” Gabriele Bonci che sulle irresistibili teglie del Pizzarium mette – con criterio – qualsiasi cosa, dal bue grasso (con porri e formaggio erborinato) al baccalà con crema di ceci e pesto di pomodorini sott’olio, utilizzando prodotti di qualità altissima, perlopiù biologici ed etici. A Roma c’è pure Pier Daniele Seu che da Seu Pizza Illuminati replica sulle sue pizze tonde leggerissime e dal bordo gonfio vere e proprie ricette, come nella strepitosa pizza Gateau di patate. Ma pure i gelati dell’infanzia, nelle pizze dolci che sono tra le proposte più riuscite in assoluto di questa particolare tipologia; vedi la nuova, estivissima Solero con il bordo caramellato con zucchero di canna e condita con mango, passion fruit e pesca, gel di arancia, ricotta mantecata, cocco disidratato e menta. 

Gli interpreti del territorio 

Altra tendenza evidente è l’attenzione ai prodotti del territorio. Anche grazie a Slow Food – con il suo progetto dell’Alleanza dei Cuochi e dei Pizzaioli, per la valorizzazione delle piccole produzioni locali – gli artigiani della pizza sono diventati tra i più efficaci e appassionati sostenitori delle eccellenze (ed economie) territoriali. Ancora una volta, l’apripista è stato Franco Pepe che mettendo sulle sue pizze ricette e prodotti dell’Alto Casertano – dall’intenso formaggio Conciato Romano al raro pomodoro riccio e i fagioli Lenzariello – ha creato una vera e propria rete virtuosa con agricoltori, contadini, casari, allevatori. È in parte ispirato al suo lavoro il progetto di Da Zero, con cui tre soci cilentani – il pizzaiolo Paolo De Simone, Giuseppe Boccia e Carmine Mainenti – hanno messo a sistema le piccole produzioni d’autore della zona campana portandole poi (sulle loro pizze) anche fuori regione, da Milano e Torino fino a Matera. Sempre in Cilento, ma a Caggiano, il giovane Angelo Rumolo e famiglia mettono in menù a Le Grotticelle ricette tipiche e buonissime pizze con gran parte degli ingredienti coltivati in proprio o raccolti nei boschi circostanti. 

Gli Italiani all’estero 

C’è poi chi il vessillo della pizza italiana ha deciso di portarlo fuori dai confini nazionali, mettendo dei punti fermi nell’attestazione dell’identità nostrana del disco di pasta. Solo tre nomi a titolo d’esempio, tutti partenopei: Gennaro Nasti che a Parigi, da Bijou, sforna raffinate pizze di stampo contemporaneo, affiancando a pummarola e mozzarella perfino lo Champagne, sopra e dentro l’impasto; Rosario Procino e Pasquale Cozzolino a New York, che da Ribalta, a due passi da Union Square, ricreano sapori e atmosfere autenticamente partenopei; e l’ischitano Giacomo Guido che a Chester, nell’Inghilterra nord-occidentale, ha aperto la sua pizzeria Stile Napoletano conquistando locali e turisti a suon di cornicioni soffici e condimenti veracemente meridionali, da salsiccia e broccoli alla nduja. 

Il futuro è verde 

Quale potrebbe essere l’immediato futuro per la pizza in Italia? Dato per scontato che l’attuale boom non sia una bolla passeggera ma il meritato riconoscimento delle sue innumerevoli potenzialità, e senza nulla levare alla sua innegabile componente goduriosa, ci sembra che i pizzaioli più accorti stiano lavorando per renderla anche sempre più in linea con esigenze che guardano alla salute o a uno stile di vita consapevole: dal menù funzionale di Franco Pepe alle “pizze della salute” proposte da Guglielmo Vuolo, ma pure le intriganti e buonissime pizze vegetariane – o anche vegane – di Pier Daniele Seu: senza proteine animali (in qualche caso c’è del formaggio), interpretano finalmente gli ortaggi come ingrediente a sé e non di puro contorno esaltandone sapori, colori e consistenze. Un esempio? La Caponata: crema di zucchine, melanzane, peperoni, zucchine cotte al forno, gel di peperoni e aceto, basilico. Per vegani, e non solo. 

 

 

Foto di Alessandra Farinelli