Il mondo cambia, e cambia in fretta. Quello della ristorazione cambia in frettissima. È sempre più difficile, infatti, catalogare i locali all’interno di quelli che sono stati per anno i nostri parametri di definizione: l’alta ristorazione (o fine dining), il ristorante in sé, il bistrot, la trattoria, l’osteria. Le anime migliori che sono dietro a banchi e fornelli scalpitano, progettano e cambiano di continuo la loro proposta. È evoluzione vera e propria e sta dando vita a locali in cui la tradizione si mescola alla ricerca, e il territorio diviene unità semantica per costruire piatti che sono radicati in un contesto specifico ma che raccontano storie nuove. O nuovissime. Difficile comprenderlo a parole, per questo bisogna conoscere e assaggiare. È quello che è successo a noi, che de La Madia a Brione avevamo sentito parlare più volte, e che Michele Valotti (anima e cuoco del locale) avevamo incontrato e conosciuto. Ma bisogna salire quei tornanti che portano a Brione, quella mezz’ora di strada dal centro di Brescia che segna un confine. Si lascia la pettinata Franciacorta per guardarla poi dall’alto in basso, da un poggio che si erge poco più su ma che è un altro mondo: già montagna. Si lascia la provincia ricca e industriale per un contesto rurale che sa di campagna subito, dagli odori. E La Madia è una bella trattoria, come altre solo in apparenza. Di quelle che – sarà perché ci sei arrivato alla fine di una strada – sembra che stiano lì come stazioni di posta a ristorarti. Grande, luminosa e arieggiata, arredata con pezzi d’epoca, formaggi, bistecche e salumi che guardano dalle celle frigorifere.
Con tanti colori che la rendono poco antiquata e che sono il preludio ad un pasto che definire originale è poco. Ci si mette nelle mani dei brillanti giovani osti e ci si immerge in un percorso che potrebbe stare solo qui, con il suo gusto identitario, fatto di erbe, latti, sapori locali e fermentazioni. Ma non confondetelo con il sapore tradizionale tout court, quello dei piatti immutabili, perché qui le cose mutano ogni ora. Ed è proprio attraverso la fermentazione che i gusti vengono plasmati e che si gioca con il nuovo. Come per le verdure, Diversamente preparate e che aprono il pasto come l’acqua fresca risveglia dal torpore. O i cappelletti di crauti fumè, panna di malga e lievito spento, che definiscono il registro di una mano solidissima che sa sostituire elementi animali con sapori vegetali come poche altre. O il risotto con koji e pino silvestre con il Nostrano Valtrompia d’alpeggio e il burro di Ester Paterlini, un piatto aromaticamente perfetto e dal gusto sensuale, per la serie “la prossima volta, se ce lo rifà, veniamo in pellegrinaggio a piedi”. O ancora, il maiale con le sarde secche (… un ricordo di polenta e osei, che stanno a Brescia come gli agnolotti ad Alba) o il filetto di pecora (gigante bergamasca) con la salsa di zagara che fa dolce più dolce – anche nelle consistenze – e ti porta con il naso nei campi. “Ma siete sicuri che sia trattoria?” potrebbe essere l’obiezione attesa. Ma è una trattoria fin nel profondo, questa Madia di Michele, che potrebbe essere qui e non altrove (come anche lui stesso), basta guardarla. Perché è l’identità che dà la forma ad un ristorante, mica solo la cucina.
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