Le cifre dell’evento modenese dedicato alle grandi maison delle bollicine francesi e ai recoltant manipulant, sono in piccolo la cartina al tornasole di ciò che sta accadendo al famoso vino francese nel mondo e nel nostro Paese. Incrementi rilevanti non ce ne sono, anzi si registra un calo del numero di bottiglie vendute, con uno spostamento importante di vendite dalla Francia verso i paesi extraeuropei. Cresce invece in termini di valore l’attenzione verso questo vino: piace sempre più e in maniera sempre più diffusa, andando a consolidare posizioni difficilmente scalfibili; e per un buon Champagne si è disposti a spendere.
La terza edizione di Champagne Experience, che il 13 e 14 ottobre ha visto la partecipazione di 120 maison con più di 650 etichette in assaggio, ha raccontato anche questo, attraverso lo sguardo professionale dei venditori. Sì, perché la due giorni nasce dall’iniziativa di un gruppo di importatori riunitosi nella società cooperativa Club Excellence – quindici i soci attualmente – con nomi di spicco come Sagna, Sarzi e Meregalli.
La prima chiacchierata la facciamo con Lorenzo Righi, direttore del Club: «Mi piace evidenziare qualche novità rispetto agli anni precedenti. Innanzitutto la crescita dei clienti Horeca; poi la presenza alle nostre masterclass di personaggi del calibro di Jancis Robinson che ha accettato l’invito per parlare di Champagne in modo didattico. Abbiamo più aziende presenti, sia d’importazione sia produttrici di Champagne, e sempre più richieste di iscrizione che non possiamo accogliere perché a Champagne Experience non partecipano case viticole senza importatori in Italia, dal momento che questo evento vuole dare visibilità sì alle aziende, ma anche agli importatori che lavorano con distribuzioni basate su strategie serie».
Al momento l’Italia con lo Champagne è messa così: sesta al mondo per volumi, quinta per valore, ma addirittura seconda per prezzo medio, dopo solo il Giappone: «Siamo un partner importante per la Francia – continua Righi – soprattutto in vista degli sviluppi non positivi della Brexit, che ha portato a un calo importante dei consumi in Gran Bretagna. In Italia si sa bere, c’è competenza e si amano le cose buone. Oltralpe inoltre c’è un consumo soprattutto dei sans année, mentre il 20% dello Champagne consumato nel nostro Paese è fatto di millesimati e cuvée speciali». Altra cosa che succede da noi è che nessun consumatore maturo si permetterebbe di mettere in competizione Champagne e, ad esempio, Prosecco; in molti Paesi invece questo succede perché i prezzi tra i due prodotti si avvicinano. Al momento le bottiglie consumate sono intorno ai sette milioni e mezzo. Certo, agli inizi degli anni 2000 eravamo intorno ai dieci, ma è difficile tornare a quei livelli. Il triangolo Parma-Reggio-Modena continua a essere la zona dove se ne consuma di più. Le motivazioni sono presto dette: «La gente qui è abituata a bere vini spumanti e a farlo a tutto pasto – ci spiega il direttore -, a scegliere vini più duri e acidi, come il Lambrusco, e a mangiare salumi; in generale c’è una cucina piuttosto grassa».
Il rapporto tra maison e importatori è spesso granitico e pluridecennale. Di grandi abbandoni se ne ricordano pochi – viene in mente Taittinger, subito sostituito dal suo importatore storico con Deutz – ma se ciò accade non è certo un caso: «Il tema delle relazioni è fondamentale – sottolinea Righi – e si costruiscono andando spesso in Francia e presentando progetti commerciali di qualità. Con i vigneron è più complesso, un po’ perché loro sono restii a una logica di esclusività, un po’ perché non possono garantire la medesima costanza dei grandi, né nelle rese, né negli investimenti. La forza delle maison è nei vins de réserve, i piccoli si buttano sull’annata – e quindi spesso sui millesimi – anche per far cassa più facilmente».
A confortare le parole di Lorenzo Righi c’è il pensiero di uno dei decani degli importatori e distributori italiani, Massimo Sagna, titolare dell’omonima società e presidente del Club Excellence: «Ci sarebbe anche una legislazione europea in difesa dei rischi che corre l’importatore, ma l’unico vero metodo è quello di fare un bel lavoro. Con il mio cliente più importante, Roederer, che rappresenta più del 50% del fatturato di Sagna, il rapporto è da sempre settimanale. In Francia da loro si va almeno due/tre volte l’anno e loro fanno lo stesso venendo da noi. Solo così si consolidano le posizioni. E credo che tutti noi della categoria siamo riusciti a fare un buon lavoro, se negli ultimi anni il consumo di Champagne, pur avendo subito delle oscillazioni, non ha mai registrato crolli di rilievo. Vuol dire che il segmento si sta consolidando».
Un po’ si delinea l’immagine – e l’idea – di un mondo, quello dello Champagne, abbastanza conservatore, che non va pazzo per i cambiamenti repentini o per rivoluzione drastiche. Eppure, in fatto di gusti e tendenze, anche qui qualcosa si è mosso negli anni. C’è da capire se è reale o apparente. «Dipende anche dal miglioramento dei vini in generale – osserva Sagna – più bevi bene, più sei portato a voler scoprire nuove etichette. Il consumatore maturo non è abitudinario ma è spinto da curiosità enologica. Vero è che si parla molto di Champagne non dosati. Per mia esperienza posso dire che se ne chiacchiera tanto, ma se ne beve meno».
Lorenzo Righi, forte dell’organizzazione dell’evento modenese nota come «C’è un ritorno alle grandi maison, alla ricetta vincente che è poi quella che ha fatto grande questo vino, ovvero quella di non ritrovarti delle sorprese inaspettate nel calice. Il momento dei vigneron c’è stato e continua a esserci, ma noto un calo d’interesse negli ultimi tre anni. L’attenzione al biologico e al biodinamico c’è ma meno che sui vini fermi, mentre in Champagne stanno lavorando moltissimo su politiche sempre più green. Negli ultimi 15 anni c’è stato un dimezzamento dei prodotti di sintesi e il 50% della raccolta 2018 è stata certificata come biologica. La differenza è che i francesi non sentono la necessità di comunicarlo a tutto spiano. Pensiamo al Cristal: in quanti sanno che è biodinamico al 100% dal 2012?».
Un approccio laico al vino – e pragmaticamente British – è quello che ha Jancis Robinson, tra le wine critic più influenti al mondo, presente a Modena per tenere due seguitissime masterclass: «Il cambiamento più evidente negli Champagne è sicuramente quello del dosaggio zuccherino, molto alto in passato e oggi sempre meno importante, con conseguente calo dell’alcol. Ciò però non dipende solo dalla scelta di uno stile produttivo, ma anche dal cambiamento climatico. Uve più mature infatti necessitano di meno zucchero. E questo si traduce anche in meno bollicine: meno zuccheri uguale meno anidride carbonica. Ecco che lo stile diventa dunque più “vinoso”. Personalmente non sono un’amante dei “dosage zero”, li trovo eccessivamente austeri».
La riflessione della Robinson fa scaturire però una preoccupazione: uve più mature vuol dire anche meno acidità, caratteristica fondante delle bollicine francesi (in passato infatti la Champagne era ritenuta zona al limite della coltivazione delle uve proprio per il clima rigido). Si cerca di ricorrere ai ripari con la ricerca scientifica. Il Comité Champagne (organismo semipubblico che gestisce gli interessi di negociant e vigneron) ha infatti lanciato un progetto della durata di 15 anni destinato a creare nuove varietà di uve attraverso l’ibridazione tradizionale – impollinazione – partendo dalle varietà meunier, chardonnay e pinot nero, in modo da preservare lo stile Champagne, quell’image brillante dei francesi, come amava dire Voltaire, filosofo illuminista, nonché buongustaio.
Foto di Stefano Triulzi
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