Mauro Colagreco

Uno straordinario uomo di relazioni,
 un vero trascinatore, capace di connettere persone e territori nel segno del calore e dell’umanità.
 Con la moglie Julia
 al suo fianco ha conquistato 3 stelle Michelin e il podio dei World’s 50 Best Restaurants.

Nel 2014 ho visitato Buenos Aires con un gruppo di colleghi della stampa estera. A guidarci alla scoperta della scena gastronomica locale c’era uno chef italo-argentino con un ristorante a Mentone, un tiro di bocce dalla frontiera tra riviera francese e ligure: si chiamava Mauro Colagreco, il suo ristorante Mirazur. Di quel viaggio ho ricordi netti, legati a interessanti format ibridi di ristorazione e mixology, a una straordinaria dry aged beef, a una trattoria commovente a due passi da “La Bombonera”, lo stadio dei Boca Junior. Ma a colpirmi più di tutto era stata la popolarità di Colagreco.

Già allora, con il suo ristorante fresco di due stelle Michelin e il podio dei World’s 50 Best Restaurants ancora lontano, lo chef non faceva passo senza essere riconosciuto, abbracciato. Un’anziana signora aveva pianto per l’emozione. Sei anni dopo, seduta con Mauro e sua moglie Julia nel grande giardino terrazzato che abbraccia la loro casa di Mentone, tra le montagne e il golfo, ricordiamo quei giorni, l’entusiasmo degli argentini. «Dovresti vedere adesso…», dice lui. «È come Evita Peron!», lo prende in giro Julia. Lui è di La Plata (con radici abruzzesi), lei di Rio, Argentina e Brasile: l’aria tra di loro crepita sempre di inesauribile, affettuosa elettricità.

Adesso le stelle sono tre e il posto nella classi fia dei 50 Best è il numero uno. Il giorno dopo aver conquistato il primato, lo scorso giugno, il Mirazur ha ricevuto seimila richieste di prenotazione. «Abbiamo quattro persone a gestire la reception, eppure c’è voluto un bel po’ per rispondere a tutte», spiega Julia. «Utilizziamo un sistema di booking che ci consente di visualizzare chi prova a riservare un tavolo senza completare la procedura: moltissimi, ultimamente, si presentano dicendo di avere prenotato online, quando in realtà non è così…». Uno straordinario picco di interesse – prevedibile per chi conosce l’effetto dei 50 Best sui ussi del pubblico – che si è andato ad aggiungere a un ritmo di lavoro in crescita inesorabile già da qualche anno. Il va e vieni di ospiti, fornitori, collaboratori e amici al Mirazur è tale che in un giorno qualunque della settimana non c’è quasi soluzione di continuità tra la fine del pranzo e la preparazione del servizio serale.

Il team di sala è stato ulteriormente rinforzato negli ultimi mesi, e la stessa Julia da qualche tempo affianca il directeur de restauration Laurent Bouveyron. «Mi è sempre piaciuto parlare con i clienti, e a loro piace interagire con la moglie dello chef; mi trovo bene in questo nuovo ruolo, anche perché richiama i miei studi: quando ho conosciuto Mauro non sapevo nulla di questo mondo – ero vegana, a Rio con la mia famiglia il massimo che ci concedevamo era un ristorante italiano ogni tanto – ma frequentavo un Master in International Business, con l’intenzione di rientrare in Brasile per fare carriera diplomatica. Mi è tornato utile quel percorso iniziale: ci vuole molta diplomazia in sala…».

Mentre la sala lavora, in cucina Mauro presiede al pass insieme ai suoi secondi, gli chef de cuisine Florencia Montes e Antonio Buono. La concentrazione è massima, intanto i minuti scorrono sui timer che per ogni comanda indicano quanto tempo è trascorso dall’ultima portata servita al tavolo. L’impostazione gerarchica è chiaramente francese (Colagreco, dopo la scuola di hôtellerie di La Rochelle ha lavorato con Bernard Loiseau, Alain Passard, Alain Ducasse e Guy Martin), ma stemperata da un buonumore che non si può non ricondurre a un DNA “caldo”. La brigata è internazionale, con una preponderanza di Spagna, Italia e Argentina.

«Tutti i miei secondi hanno cominciato in questa cucina, come commis o stagisti. Sono cresciuti con me e sanno benissimo ciò che voglio. Io vivo qua, se parto sto via al massimo una settimana» – Colagreco ha anche tre hamburgesas in Argentina e una brasserie a Parigi – «la dinamica creativa è di gruppo, ma la mia supervisione c’è sempre». Mirazur ha da tempo optato per due percorsi di degustazione, eliminando la carta: alcuni piatti signature tornano periodicamente, con minime varianti, come il Piccione con frutti di bosco e orzo perlato, e il Calamaro di Bordighera con bagna cauda e carciofo; altri sono frutto dell’ispirazione del momento, e sono creati à la minute. La narrativa prevalente sulla cucina di Colagreco è che è una cucina di ingrediente, un’ovvietà che può (o dovrebbe) valere per molte cucine (se non è “di tecnica” una cucina è “d’ingrediente”, non si scappa).

Certo, il Mirazur ha dalla sua un paniere di prodotti locali davvero eccezionale – volatili, pesce di golfo, ortaggi e frutta (impressionante il range di agrumi), molti dei quali raccolti ogni mattina nell’orto del Mirazur e in quello ancora più grande di casa Colagreco da un team di giardinieri esperti. Ma il tratto più interessante nel lavoro dello chef, per me, è il trattamento delle texture. «Ne ho capito l’importanza quando dal 2010 ho scoperto la Cina» – lo chef ha consulenze in alberghi di Bejing, Macao e Nanjing, oltre a due in Francia e una prossima a Bangkok. «Ho preso tempo a capire perché là usassero fino a dieci strutture diverse nel piatto. Per me questo rappresenta la terza dimensione: il palato si diverte, il gioco in bocca cambia totalmente la percezione, alcune texture rallentano, altre accelerano il passaggio dei sapori».

Lo sa bene Julia che non mangiava calamari finché Mauro non le ha presentato la sua ormai celebre versione “a julienne” del mollusco. L’ho potuto sperimentare anch’io nel corso di numerose visite al ristorante, inclusa l’ultima: penso a una sequenza di portate con tre varietà diverse di funghiAmanita caesarea, finferli e porcini. La prima era servita a lamelle sottili, di consistenza a metà tra la mandorla e il petalo di rosa, su una tartelette farcita di Grana Padano 36 mesi; i secondi stufati e abbinati a calamaretti, chayote ed emulsione di kabosu; il terzo, servito intero, di una croccantezza quasi legnosa, bilanciata da una scaloppa di foie e da un bagnetto di brodo di bosco. Un lavoro di finessing che ovviamente è più facile su piatti studiati, ricorrenti, che su piatti espressi, one shot. Ma Colagreco ritiene che le due tipologie possano coesistere in maniera produttiva: «Il mio obiettivo è una cucina “viva”; anche se ci sbagliamo in un piatto, abbiamo tutto un percorso. Sappiamo che alcuni piatti sono “boom”, mentre il ruolo di altri, più semplici, è di movimentare il ritmo, introducendo un rilascio di tensione».

Il prossimo inverno la brigata di Colagreco avrà una casa più grande. Pochi mesi fa sono stati ultimati alcuni lavori strutturali sulla palazzina degli anni 30 che ospita il ristorante: è la prima volta, da quando lo chef l’ha rilevata 14 anni fa (e in seguito acqui- stata), che la casa di Mirazur subisce un intervento di questa magnitudine. Colagreco mi mostra i progetti con i dettagli dei nuovi materiali: superfici porose, frastagliate, incise, operate. Anche qui è chiara la sua passione per la ricerca texturale. La prima fase dei lavori ha interessato sala e uffici; il prossimo round si concentrerà su back o ffe, spogliatoi e sul piano inferiore alla cucina, dove troveranno posto un laboratorio gastronomico con un tavolo dello chef e la mensa dello staff. Sarà anche completato il percorso in giardino, dove si trovano un’acetaia e il forno a legna, installato di recente: sarà al centro di un momento conviviale che porterà il cliente ad assistere alla cottura del pane.

«Finiremo con l’espansione della cucina vera e propria: si ingrandirà fino a occupare tutto il piano che la ospita attualmente». Nel corso dei due mesi necessari a completare l’ultima fase, che comporterà una chiusura forzata, Colagreco sta pensando di organizzare una serie di pop-up. Ho sempre trovato brillante la sua capacità di organizzare eventi per forgiare nuove alleanze e ampli care la conoscenza della sua cucina. Trovo che sia uno straordinario uomo di relazioni, un fattore importante per il consolidamento del business. «Quando sono arrivato in Francia non conoscevo nessuno; avevo solo il telefono dell’amico di un amico e non parlavo quasi la lingua: per me avere il numero di qualcuno era importantissimo, sapevo che un giorno ne avrei avuto bisogno. Anche prima di aprire Mirazur, a 28 anni, ho sempre tenuto in gran conto i contatti di fornitori e colleghi: facciamo un lavoro di commercio, la base è piacere ai tuoi clienti, poi agli altri. Però non lo ritengo un impegno, io sono così di carattere».

In un settore che sembra sempre più mosso da finalità strategiche, Colagreco ne riconosce l’importanza, ma non l’indispensabilità. «Le operazioni troppo calcolate non funzionano: anche noi ne abbiamo fatta qualcuna in passato, ma il vantaggio che ti portano è relativo. Lo stesso vale, per esempio, per la questione dello storytelling: fino a cinque anni fa, potevi fare la cucina più buona al mondo ma se non avevi il racconto, stavi fresco; cos’è però la cucina, qualcosa che ti nutre o una storia?». Lo chef sorride spiegando che in tutte le interviste più recenti inevitabilmente i giornalisti gli hanno chiesto “E adesso?”. «Come se fosse problematico immaginarsi un ulteriore goal dopo le tre stelle, dopo i 50 Best. Ma per me, che tu ci creda o no, le guide e le classifiche non sono mai state l’obiettivo. Considera che quando ho cominciato a interessarmi di cucina, in Argentina, non sapevo neanche cosa fosse
la Michelin…».

Per i Colagreco e la loro squadra ora è tempo di divertirsi, con progetti come la pizzeria Pecora Negra, da poco inaugurata a Mentone, a due passi dal porto. «Abbiamo anche rilevato un antico forno e un mulino, con l’idea di potenziare la nostra attività di panificazione, avvalendoci anche di una collaborazione con un produttore di grani storici locali», spiega Julia, che sta seguendo il nuovo fronte con particolare entusiasmo.

Una delle sue nuove responsabilità ha a che fare con l’organizzazione del personale. «Vogliamo migliorare la qualità della vita di tutti i nostri ragazzi: abbiamo provato un sistema di turni abbreviati come fa il Noma, ma poiché la nostra cucina è molto “cucinata”, e non può essere preparata con troppo anticipo, non
ha funzionato. Credo che il prossimo passo sarà ripensare il calendario delle chiusure». Ci prepariamo a salutare Mauro e Julia: è il loro momento di giocare con il figlio Valentin. «E lui pensa di lavorare più di me…», ride Julia, indicando Mauro, mentre il figlio la trascina in un ballo scatenato. Sembra lontano ora quel viaggio in Argentina. Chiedo allo chef quanto si sente cambiato da allora. «Come uomo continuo a essere lo stesso, ma ovviamente con più maturità, più calma». «Più calmo?», ride Julia. «Qualche volta…», risponde lui.

foto di Alberto Zanetti