Il profumo inconfondibile, l’aroma e la complessità che riesce a donare a piatti semplicissimi e deliziosi, il colore così particolare. Ma a rendere unico e prezioso il Tartufo Bianco Pregiato – il Tuber magnatum Pico, grande vanto soprattutto dei boschi italiani e altrove presente in natura solo nella penisola balcanica, più raramente in Svizzera e nel sud-est della Francia – è anche la sua rarità, dovuta al fatto che questa particolare varietà di fungo ipogeo non sia coltivabile: sta alla bravura e all’intuito di cavatori e cani appositamente addestrati l’impresa di trovarli.
A differenza di altri tartufi – dal Nero Pregiato (Tuber melanosporum) allo scorzone (Tuber Aestivum Vitt.) – infatti, che già da diverso tempo crescono anche nelle “tartufaie controllate”, il Bianco Pregiato non si riesce a coltivare fuori dalle zone nelle quali si trova naturalmente, rendendo dunque di fatto impossibile sapere se un eventuale tartufo trovato sia “naturale” o frutto di piantine micorrizate con le spore per favorire l’associazione simbiotica tra piante (come la quercia o altre) e il fungo, che dà origine alla formazione del tartufo. Una pratica che negli ultimi anni è cresciuta tantissimo, anche per far fronte a una domanda crescente e alle condizioni ambientali che ne mettono sempre più a rischio la crescita naturale – mentre questo tipo di coltura è agro-ecologica e non richiede l’utilizzo di prodotti chimici, anzi favorisce la biodiversità dei terreni – ma che non si era rivelata idonea per la varietà più pregiata.
O meglio, così si pensava. Pochi giorni fa, con una conferenza stampa online che ne ha sancito l’annuncio ufficiale, la Francia ha posto la sua bandierina sull’impresa; ma c’è pur sempre anche lo zampino italiano visto che le spore provengono da tartufi nostrani. Nel 2019 (e poi di nuovo nel 2020), infatti, sono stati raccolti i primi tartufi in piantagioni sperimentali nella regione della Nuova Aquitania – dunque fuori dall’habitat consueto – dei tartufi bianchi pregiati ottenuto utilizzando piantine preventivamente micorrizate con T. magnatum.
Il risultato è il frutto della ricerca congiunta – iniziata nel 2008 – tra l’INRAE (l’Istituto nazionale di ricerca francese per l’agricoltura, l’alimentazione e l’ambiente che già dagli anni ’70, prima come INRA, si occupa di studi sulla tartuficoltura) e il vivaio specializzato Robin, che dal 1948 coltiva sulle Hautes Alpes piante per la riforestazione in montagna (come il pino cembro e il pino mugo, che svolgono un’importante opera di protezione contro le valanghe) cui ha affiancato le piante micorizzate con funghi e tartufi. I risultati scientifici di questo lavoro sono stati pubblicati il 16 febbraio sulla rivista Mycorrhiza. La produzione di corpi fruttiferi di T. magnatum in una piantagione al di fuori della sua area di distribuzione naturale è una prima mondiale ed apre la strada allo sviluppo della coltivazione di questo tartufo in Italia, ma anche altrove nel mondo.
Presentato da Claude Murat, ingegnere di ricerca dell’INRAE, specialista del tartufo e del processo di micorrizazione, e da Christine Robin, Direttrice Commerciale di Robin Pépinières con l’intervento del cavatore e tartuficoltore marchigiano Emidio Angelozzi, che conferma l’importanza del risultato ottenuto soprattutto viste le difficoltà delle ultime annate, il protocollo INRAE/ROBIN (sotto licenza e controllo dell’INRAE) riesce a garantire – a differenza di quanto accaduto finora – che le piantine siano effettivamente micorrizzate da spore di Tuber magnatum, grazie ai controlli sulla morfologia radicale e alle analisi del DNA effettuate su ogni singola pianta.
La reale persistenza di T. magnatum nelle piantagioni situate in regioni francesi con diversa collocazione geografica e caratterizzate da climi differenti (Rhône-Alpes, Bourgogne Franche Comté e Nouvelle Aquitaine) era già stata verificata dopo tre/otto anni dalla loro realizzazione. In una di esse, in Aquitania, i primi tartufi sono stati raccolti nel 2019, quattro anni e mezzo dopo la messa a dimora delle piantine micorrizate: un tempo inaspettatamente breve, anche se è naturalmente troppo presto per poter fare stime più ampie e generalizzate. Sorge spontaneo però, a questo punto, il dubbio: un tartufo bianco coltivato mantiene le caratteristiche organolettiche che lo rendono così speciale e ambito? Assolutamente sì, conferma Murat, che ha naturalmente proceduto all’assaggio e ha alle spalle vent’anni di studi (anche sensoriali) sul tartufo.