«La verità è che proviamo a friggere qualsiasi ingrediente. Ogni volta è una sfida per provare a estrarre un valore aggiunto che esuli dal concetto stereotipato del fritto, una cottura spesso adottata per rendere un alimento più godibile, ma su scale monocromatiche o tragicamente indigeste. È una cifra stilistica che ci scorre nelle vene, come olio al giusto punto di fumo, sin dagli esordi».
Le parole di Francesca Barreca affiorano lucide come le bollicine che sfrigolano nelle friggitrici, disposte a mo’ di armi da battaglia. Mentre Marco Baccanelli, suo compagno di vita e lavoro, organizza la linea dei prodotti da tuffare in un bagno ricostituente. Siamo nella cucina di Legs, a Roma. E per i meno aggiornati sulla scena locale, i due protagonisti sono fautori del format fast food più atipico e votato alla qualità che rintraccerete in città. Perché da Legs il fritto è cultura, quasi religione. Un micro-ristoro che dispensa polli fritti, panini e variazioni virtuose sul tema. Nato in società con i titolari dell’Artisan Pub, quale prolungamento espressivo del percorso di Francesca e Marco (in arte The Fooders), coppia di cuochi che, proprio dove ora sorge Legs, inaugurarono Mazzo nel 2013. Indirizzo a sua volta scandito da un’unicità dell’offerta e dal merito di aver animato un quartiere periferico come Centocelle, fino a quel momento arido di insegne degne di nota. Pur provenendo da gavette rigorose – Igles Corelli e La Capanna di Eraclio – il nostro duo non ha mai accantonato le influenze underground che ne hanno definito l’identità. Le hanno piuttosto traslate in un nuovo linguaggio che tramite Mazzo (prima) e Legs (oggi) raggiunge la portata più solida. Soprattutto parlando di fritto.
«La memoria della cotoletta di pollo ripassata nel pomodoro di mia madre – racconta Marco – è un lascito gustativo che mi ha spronato alle prime prove del piatto, inizialmente come pollo in salsa alla cacciatora. Il commento di un nostro giovanissimo aficionado sulla scarsa croccantezza del mio tentativo mi ha spinto a brevettare la forma attuale. Distaccandoci volutamente dal fritto americano, per cercare un compromesso tra i nostri ricordi e un prodotto dal timbro italiano. Dopo una serata trascorsa a guardare la puntata di Ugly Delicious sul fried chicken statunitense, un raptus famelico ci ha fatto scattare l’illuminazione finale per il progetto Legs». Provando a fare chiarezza, il pollo fritto USA prevede una consistente pastella di uova, farina e latticello che i Fooders non volevano replicare.
«L’ingrediente base deve essere l’attore principale – approfondisce Francesca –. Un involucro pastellato così prominente non rispecchiava la nostra visione, quindi siamo partiti da una meccanica di sottrazione». Solo sovracosce pulite alla consegna, condite con rub a secco (marinata di coriandolo e pepe nero), cotte sottovuoto e abbattute azzerando i margini di carica batterica. In virtù dell’uovo, interviene una “lega” di farina, acqua e maizena dove immergere il pollo precedentemente infarinato, che si adorna con una panatura volutamente grezza composta da un mix di pane Genzano e Lariano.
«Nel progettare le proposte ci siamo resi conto dell’importanza della standardizzazione – sottolinea Marco – concentrandoci su un prodotto che rimanesse croccante anche dopo diverso tempo dalla frittura. Sia per la consumazione in loco che per il delivery, nato in contemporanea all’apertura del locale. Plasmiamo quindi una crosta piuttosto spessa in cui la nota crunchy è enfatizzata da questa proporzione. Lo scudo panato tutela un cuore succoso e umido, senza perder nerbo persino da freddo». La frittura è in olio d’arachidi tra i 155 e i 165 gradi: «Troviamo pesanti sia l’olio di girasole che altri oli di semi – spiega Francesca –. La temperatura meno aggressiva dona uniformità ottimale, per riprodurre un risultato col minimo margine di errore». Il medaglione dorato a puntino viene cosparso con polvere di cipolla essiccata in compagnia di alette di pollo, solo pastellate nella lega e fritte. Si materializza così la piramide del Legs Mixtape, dove anche salse e laccature recitano un ruolo di spicco: dressing di soia e miele per le ali classiche, salsa ketchup rinforzata dalla ‘nduja per la versione piccante. Non da meno la maionese montata con olio al rosmarino dove inzuppare la pepita di pollo.
«Sono emotivamente d’accordo con l’espressione, diffusa a Roma, su quanto fritto sia buono tutto – incalza Barreca – ma molto meno se la riporto sul piano tecnico. Il fritto è buono se ben fatto, ma è più frequente renderlo cattivo compromettendo lo stomaco o l’ingrediente che andiamo a friggere. Io mi oriento sulla logica dei tre elementi: alimento principale, panatura e grasso. Il primo condiziona gli altri due, che vanno modulati per esaltarne il gusto o la forma finale. La nostra trippa fritta, signature dish dai primi menu di Mazzo, incarna questa regola. Con Marco cerchiamo spesso di proporre il quinto quarto romano in abiti contemporanei. Remixare la trippa ha suggerito subito una trasformazione in guisa di snack fritto». Parliamo di una traduzione brillante di un classico in foggia ultra croccante. Ambrata e sgranocchiabile quasi come chips di frattaglie, da intingere nella salsa al pomodoro, pecorino e mentuccia. «L’obiettivo è di non deturpare le lamelle multiformi della trippa con pastelle invasive. Scegliamo un taglio col giusto grado di collagene quale il centopelli, per poi pre-cuocerlo e passarlo nella semola». Una membrana abbronzata che, tuffata in olio d’arachidi, permea i filamenti della frattaglia cristallizzandone le pieghe. È un piatto cult che sancisce una costante nel passato e presente di Francesca e Marco.
Concludiamo l’Odissea nel fritto con un piatto che, in veste di anteprima, potrebbe già rientrare nel menu del futuro Mazzo. «La pandemia ha gravato sulla ricerca del nuovo spazio – ci confida Marco – ma non ci siamo persi d’animo e si prospettano possibilità all’orizzonte. I mesi di lockdown sono stati duri ma ci hanno dato l’opportunità di sperimentare nuove preparazioni per la riapertura che ci auguriamo arrivi presto». Tra le prove inedite dei due, ecco anche una ricetta di lumache fritte in salsa dashi: «Rimodernata con lo spunto francese del burro – interviene Francesca – tipico nella bourguignonne. La panatura mantiene un tratto orientale con il panko, un involucro che dona volume maggiore a un ingrediente così delicato da maneggiare. Spurghiamo e sbollentiamo le lumache in un brodo all’alloro, le passiamo nei fiocchi di pane giapponese e le friggiamo entro i 160° C, in un burro chiarificato all’aglio. Le adagiamo poi su una crema di patate emulsionata senza grassi con estratto di prezzemolo. Una nuova frontiera di fritto e di ristorazione identitaria che abbraccia il nostro stile, ma piazza un piedistallo su quel che vorremmo proporre nel nuovo Mazzo». La lumaca esprime tutta la sua viscosità e callosità, lasciando sbocciare un’inedita verve bucolica, rinvigorita dal burroso rivestimento nipponico e dalla setosità emolliente della salsa. Un finale filologico, pregno di vitalità creativa, che disegna un simbolico full circle professionale dei cuochi. Siamo fritti, sì, ma nelle mani di campioni del genere