Quando parliamo di fritto nella cucina asiatica pensiamo subito al riso cinese o alla tempura giapponese, ma spesso facciamo l’errore di considerarla una mera tecnica di cottura; si tratta invece di un approccio attento alla freschezza e alla consistenza degli ingredienti, alle temperature e ai tempi. La tecnica più diffusa in Asia è probabilmente la cottura cinese con il wok (chăo) e in alcuni paesi la frittura viene associata anche ai dolci, come succede in Malesia con le kuih keria, ciambelle di patate dolci, o nelle Filippine dove il fritto regna sovrano e si mangiano le banane caramellate fritte o in pastella. Le banane sono tra i protagonisti dei dolci anche in Thailandia dove quelle della varietà kluay nam wah (piccole, sode e poco dolci) sono immerse in una sottile miscela di farina di riso e tapioca, cocco e sesamo prima di essere fritte.
Se in Thailandia o nelle Filippine i cibi fritti si cucinano e si mangiano soprattutto all’aperto, in versione street food, in Giappone non si ha paura di friggere in casa. Aya Yamamoto del ristorante milanese Gastronomia Yamamoto ci racconta che già la nonna friggeva quotidianamente munita di Katameru Poi: significa “solidifica e butta” e si tratta di un composto che, aggiunto all’olio esausto, lo solidifica e permette di buttarlo nell’umido. La frittura, e in particolare la tempura, in Giappone è una tradizione ben consolidata dall’arrivo dei missionari portoghesi e dei marinai spagnoli, che nel XVI secolo rispettavano le tempora: i periodi di digiuno ecclesiastico durante i quali i cristiani si astenevano dal mangiare carne. Ma dove troviamo le vere differenze tra il fritto nostrano e quello asiatico? Sicuramente in due momenti importanti del procedimento: la marinatura e la pastella. Nel caso della tempura, la pastella è preparata con farina di riso e acqua frizzante ghiacciata. I due componenti sono miscelati con le bacchette creando volontariamente grumi che permettono di ottenere una miglior croccantezza insieme alle bolle d’aria dell’acqua frizzante, che rimangono imprigionate grazie allo shock termico con l’olio bollente.
Una tempura tradizionale si può trovare da Shima, il ristorante Nikkei di Mine and Yours a Lecce, dove lo chef Koyi Murrieta Tanabe, che ama combinare la cucina giapponese con quella peruviana, dimostra di conoscere le tecniche tradizionali di entrambi i paesi. Da MU dimsum a Milano lo chef Chang Liu si diverte a farci mangiare l’involtino primavera, simbolo pop della cucina cinese in Italia, tanto semplice quanto raro nella sua versione perfetta e tradizionale. Altrettanto classica e interessante è la pastella preparata dallo chef del ristorante di cucina regionale cinese Kaiyue a Roma per valorizzare il rombo fritto a base di tuorlo d’uovo e fecola di patate con sale e pepe di Sichuan. Saporita quella che avvolge le sarde fritte servite con fagiolini neri fermentati del ristorante Wonton – uno dei tre ristoranti di Agie Zhou, già conosciuto per La Ravioleria Sarpi e Le Nove Scodelle – a Milano.
Le regole da seguire quando si tratta di olio e temperature sono molto simili ovunque, anche quando viene fatta una doppia frittura come nel caso dei wonton del ristorante cinese Dao a Roma: fritti nell’olio di girasole a una temperatura di 70° fino a doratura, lasciati poi raffreddare e fritti nuovamente nell’olio bollente per un altro minuto, il segreto della loro croccantezza è proprio nel doppio passaggio. Per molti giapponesi la cosa più importante nella preparazione è il rumore; lo sfrigolio dell’olio non deve essere coperto da musica di sottofondo, dal suono intuiamo la giusta temperatura… Non tutti però usano la pastella da tempura; Jun Giovannini, la chef giapponese di Mu Fish a Nova Milanese, ad esempio, non lo fa quando cucina il “Tako no tempura”, un polpo bollito, impanato e fritto servito su crema di patate, topinambur, germogli e salsa allo yuzu. Una declinazione della tempura è il kaki-age (“cachi-aghe”): age deriva da ageru, friggere, kaki da kaki-mazeru, miscelare. In questo caso si ignorano le regole del kiru nel taglio degli ingredienti e quelle estetiche del moritsuke per la presentazione, e tutto viene ridotto in piccoli pezzetti miscelati alla pastella per formare delle frittelle croccanti. Da Gastronomia Yamamoto negli Ise udon della chef Ena – un piatto tipico della zona di Ise condito con una salsa densa – troviamo il kakiage di cipolla e zenzero rosso.
Se c’è una cucina che ha fatto delle frittelle un’arte è quella coreana: il jeon è un piatto tradizionale che non manca mai nelle tavole festive abbinato al Maggulli, vino di riso fermentato a bassa gradazione alcolica. La chef biologa Elena Lee del ristorante Nagrin a Milano ci racconta che ne esistono molte varianti, quella più comune è a base di patate, frutti di mare, cipollotti, grano saraceno e kimchi. Quest’ultimo – un concentrato di vitamine e sali minerali ad altissimo contenuto probiotico – è una preparazione a base di verdure fermentate, indispensabile nella cucina coreana. Le marinature sono molto diverse da paese a paese: Guglielmo Paolucci, chef del ristorante milanese Gong, fa marinare le triglie con acqua, soia e vino di riso prima di impanarle usando il panko. Diversamente dal nostro pangrattato, è costituito da fiocchi o schegge di pane bianco, che inglobando aria riescono a far scivolare l’olio in eccesso durante la cottura garantendo così la leggerezza. Da Gong le triglie vengono accompagnate con dei filamenti croccanti di alga kombu, e servite con una crema delicata di patate e latte di soia.
Dopo aver lasciato Milano, lo chef hongkonghese Kin Cheung cucina nel suo nuovo ristorante Element di Firenze i piatti tradizionali cantonesi, come il riso saltato con gamberi e verdure e il branzino impanato sale e pepe. Kin porta in Italia la cucina cantonese più autentica, come i suoi ormai famosi ravioli al vapore, utilizzando ingredienti italiani di altissima qualità. Sempre a Firenze, da Ciblèo, la chef coreana Minjoo Heo, ispirata da Fabio Picchi, realizza un’irriverente quanto divertente cucina fusion che mixa le suggestioni orientali di Cina, Giappone e Corea ai prodotti italiani; lo fa anche con il cannolo siculo coreano alla curcuma, curry, cipolla appassita in acqua e salsa di soia e yogurt greco.
Un grande esempio di cucina giapponese in stile occidentale diventato un classico è il tonkatsu, la famosa cotoletta di maiale croccante che da Mikachan, trattoria izakaya a Roma, viene servita a listarelle sottili e con il cavolo verza. Dopo aver vestito il kimono da karate, Micaela Giambanco (Mika) ha indossato la camicia da chef con il desiderio di importare un’autentica cucina giapponese casalinga. Per completare l’esperienza nel mondo del fritto asiatico, consigliamo di assaggiare il Crab Bao di Baby Bao, il nuovo dim sum bar romano nato in tempi di pandemia nel cuore di Trastevere, con un piccolo ma convincente menu e una bella selezione di sakè. Il segreto del delizioso panino, ci confessa lo chef Andrea Massari, è scegliere granchi dal guscio molle (pescati cioè poco dopo la muta del carapace) per poterli servire integri passandoli in una miscela di farina, pepe macinato fresco e un pizzico di curry, uovo sbattuto e pangrattato di grissini.
MILANO
Gastronomia Yamamoto – Via Amedei 5
MU dimsum – Via Aminto Caretto 3
La Ravioleria Sarpi – Via Paolo Sarpi 27
Le Nove Scodelle – Viale Monza 4
Nagrin – Via Gustavo Fara 17
Gong – Corso Concordia 8
NOVA MILANESE (MB)
Mu Fish – Via Galileo Galilei 5
FIRENZE
Element – Via Pratese 100
Ciblèo – Via Andrea del Verrocchio 2r
ROMA
Kaiyue – Via Cairoli 33/A
Dao Restaurant – Viale Jonio 328/330
Mikachan – Via Torcegno 39
Baby Bao – Piazza Trilussa 40
LECCE
Shima Lounge – Via 47 Reggimento Fanteria 28