Se nessuno è stato ancora in grado di inventare il teletrasporto, ingegneri e urbanisti giapponesi ci sono andati molto vicini: salendo su qualsiasi linea dello sterminato e intricato – ma efficientissimo – sistema di treni metropolitani di Tokyo, nel giro di poche fermate ci si può trovare catapultati da un mondo all’altro. Così, dall’allegra confusione di Yūrakuchō – quartiere degli affari a distanza di passeggiata tanto dalle eleganti strade dello shopping di Ginza quanto dalla quiete ovattata dei giardini di Hibiya e del Palazzo Imperiale di Tokyo, e a due passi dall’enorme e affollatissima Tokyo Station – in poche fermate ci si trova a Mejiro: per chi non fosse mai stato in questa zona del quartiere di Toshima, e si fosse magari addormentato o distratto durante il breve tragitto, la sensazione potrebbe essere quella di aver compiuto un viaggio ben più lungo per Milano o Parigi. La grande strada che parte dalla stazione allungandosi verso i boulevard di Yamate-dori Avenue, molto tranquilla dopo la chiusura degli uffici e di gran parte dei negozi, potrebbe tranquillamente trovarsi in una grande città europea, punteggiata com’è di piccole boutique, bistrot francesi e gelaterie ed enoteche italiane.
A un certo punto, l’attenzione viene attirata da un’insegna che ha qualcosa di molto familiare ma che – secondo le logiche del viaggiatore che ha percorso miglia e miglia per giungere a destinazione – non dovrebbe essere qui: Pastificio Del Gatto Unica Sede. Continuando, in puro stile retrò da bottega italiana anni 60 tra piastrelle bianche e infissi di legno massello, con l’elenco dei prodotti in vendita – tortellino (sic), tagliatelle, tortelloni, anolino, gramigna, passatelli, strozzapreti, lasagna da asporto – e con le attestazioni di qualità e “storicità”: “Dal 2021 Specialità di pasta fresca dell’Emilia-Romagna”.
Dalle vetrine, una serie di altri prodotti e marchi non levano dubbi sull’autenticità del tutto: amarene Fabbri, prosciutti di Parma, forme di Parmigiano. Dietro, però, non c’è un emigrato italiano con una lunga tradizione di famiglia alle spalle e una evidente nostalgia per i sapori di casa, bensì una storia più recente ma non meno interessante. È quella di Takahiro Makabe, chef di Shinjuku che ha appreso l’arte della pasta fresca e ripiena da un maestro giapponese e l’ha affinata trascorrendo qualche anno a Brisighella, ormai diversi lustri fa, dove ha lavorato accanto a una arzdòra locale.
Nel 2016 ha aperto il ristorante Tre Gatti, al primo piano di un palazzetto poco distante dalla bottega nata successivamente (ci dovrebbe essere, nelle vicinanze, anche la Tigelleria Gatarì: a causa delle difficoltà linguistiche non siamo riusciti ad averne conferma né a capire a cosa siano dovute le insegne feline, se non a una probabile passione per i gatti). Due micro rampe di scale ed ecco che dalla signorile quiete di Mejiro ci si ritrova in un’osteria della provincia emiliana: tavoli e sedie di legno, tovaglie a quadri, bottiglie di Lambrusco, Sangiovese e Trebbiano (e pure di grandi extravergine nostrani: lo chef è diplomato Sommelier dell’Olio AISO mentre lo scorso gennaio ha ricevuto il Premio Alberini dell’Accademia Italiana della Cucina per il Pastificio del Gatto), scritte in italiano sulle lavagne che illustrano alcune delle proposte del giorno, dolci e salate. Uniche note “stonate” ma di certo non spiacevoli: il bancone che, seppur in legno intonato al resto, riporta all’usanza nipponica di mangiare al Kauntā (dall’inglese counter) e le arie dell’opera che risuonano al posto di quelle da balera. Dietro al banco, aiutato da una collaboratrice, Makabe fa tutto: prende gli ordini, scalda sughi e cuoce le paste, serve il vino, chiacchiera e lava i piatti.
Il menu recita, in italiano e in giapponese, un perfetto repertorio da provincia emiliana (dove non è poi così facile trovarne uno altrettanto ricco, annoverando anche specialità romagnole): tagliere di salumi fatti in casa, erbazzone, tortellini in brodo o alla panna, tagliatelle con il ragù alla bolognese, passatelli e anolini in brodo – ma ci sono pure inedite proposte di mare, dai manfrigoli in brodo di seppie ai passatelli con le vongole, peculiare variante omaggio allo chef brisighellese Piero Donegaglia –, lasagne verdi al forno e balanzoni bolognesi, più la spoja lorda aggiunta a mano.
E poi ancora: polpette, trippe miste, salsicce o costine al forno, orecchie di maiale con fagioli borlotti, cotechino fatto in casa. C’è anche un menu degustazione a 6mila yen, pari all’incirca 40 euro con il cambio per una volta favorevole. Divisi tra la voglia di assaggiare tutto e il caldo che a inizio giugno già attanaglia la capitale giapponese, ordiniamo quelle che ci sembrano le opzioni più “leggere”: erbazzone, balanzoni e polpette, preceduti da una deliziosa tigella su cui spalmare voluttuosamente del lardo pestato che arriva come benvenuto. Tutto buonissimo, e con in più il sapore di qualcosa di inatteso.
Intendiamoci, mangiare dell’ottimo cibo italiano in Giappone – a cominciare dalla pizza – per mano di cuochi locali non è certo una rarità, grazie al grande amore per la nostra cucina e cultura e alla meticolosità con cui vi si approcciano. Ma il menu del Tre Gatti è una vera dichiarazione d’amore all’Emilia-Romagna e alla sua grande tradizione culinaria, che infatti ha conquistato anche palati molto autorevoli nel campo: da quello di Andrea Bezzecchi – produttore di aceti straordinari, balsamici e non, con l’Acetaia San Giacomo di Novellara ma anche esperto assaggiatore di Parmigiano Reggiano – grazie a cui abbiamo scoperto il locale, a quello dell’imprenditore Luca Malaguti, originario di Castelfranco Emilia e residente in Giappone da anni, che nel 2018 lo ha portato nella cittadina emiliana per un tour tra produttori e ristoranti, di cui lo chef conserva con orgoglio la cronaca pubblicata sulle pagine del Resto del Carlino.