Non solo formaggio, pizza, pasta, dolce, cocktail, vegetali ma anche pesce. All’elemento marino è stata dedicata un’intera sessione del Congresso di Identità Golose tra chef d’hotel, maestri giapponesi e frollatori seriali che si sono alternati sul palco e ai fornelli. Proprio da Milano arriva il primo contributo che ha aperto l’ultima giornata di lavori: è Guido Paternollo, ingegnere (anche avviato nella professione) che ha disubbidito ai suoi studi dopo essere stato folgorato dalla cucina, collezionando esperienze internazionali al fianco di Alain Ducasse e Yannick Alleno, prima di approdare nel 2022 al Park Hyatt di Milano che quest’anno compie vent’anni (e per l’occasione si è regalato anche un club sandwich nuovo nella forma).
Un tema interessante, quello del pesce, all’interno del sistema alberghiero che sollecita Paternollo a ragionare sugli scarti, a partire dalle trippe di baccalà, sofrito (si legge alla spagnola con una sola “f” e una sola “t” ed è quello che mettono nella paella) e fagioli di Controne: «Qui a Milano le trippe si usano di vitello, e in questo caso ne propongo una rivisitazione trattando in realtà la vescica natatoria del baccalà tagliata a striscioline». Se per assaggiare questo piatto bisognerà aspettare il prossimo menu invernale, la capasanta servita con crema di cime di rapa è attualmente in carta da Pellico 3. Aspettatevi una semplicità disarmante che deriva da una conoscenza approfondita della materia prima: «Volutamente non usiamo capesante italiane: primo perché hano una noce molto piccola al punto che i tempi di cottura la rovinerebbero, e poi quella del Mediterraneo è più sapida di quella dell’Atlantico. Noi scegliamo capesante francesi, da Bretagna o Normandia, dove si rispetta un fermo pesca rigoroso». Da buon ingegnere Paternollo tira fuori pure il “teorema della capasanta”: «Per “nuotare” le capesante si aprono e si chiudono facendo uscire l’acqua e questa pressione fa in modo che il mollusco riesca a muoversi sul fondale». Al di là di questa digressione curiosa e da “nerd” di cucina, la sua preparazione viene servita come fosse un ragù all’italiana ma uno come Paternollo, formatosi nelle cucine d’Oltralpe, non prescinde da un fondo bianco, ovvero un brodo di pollo, una delle basi della cucina francese; il giovane chef ha familiarità anche con i sapori orientali e lo dimostra dosando la salsa XO, condimento cinese principalmente a base di crostacei che sprigiona tutto il suo umami.
È stato ispirato dal lavoro dei nonni in campagna Jacopo Ticchi che ha fatto della maturazione del pesce la sua cifra stilistica. Da Trattoria Da Lucio (nome di suo figlio) a Rimini il menu è diviso in atti e ruota in base alla disponibilità del pescato: «Il mio resta un ristorante di pesce, non faccio cucina creativa. Mi sono scordato delle regole per creami un pensiero che rispondesse a una esigenza: non mi tornava più emozione dal pesce fresco. A quel punto è iniziata la mia ricerca. Ho guardato al mio passato, alla macelleria di famiglia, al mondo del maiale e ho inteso la materia ittica in tutte le sue parti. Bisogna capire l’animale, che sia al pascolo o sott’acqua». Nella ripartizione Condivisione – Crudo – Brace – Bollito – Fritto – Pasta (sì, viene servita per ultima come fosse un dessert) il pesce è declinato nella sua interezza, dalla testa alle interiora. «È difficile standardizzare in questo modo».
Precursore delle frollature di mare in Italia è stato Moreno Cedroni che con il suo Madonnina del Pescatore quest’anno ad aprile compie quarant’anni. Ripercorrendo i suoi esordi professionali riconosce la disobbedienza «nelle transumanze nei ristoranti francesi per studiare e capire che non c’è bisogno di fare fondi su fondi. Quel concetto di alleggerire sul burro non mi andava giù». Il più grande disobbediente per lui? Ferran Adrià. «La prima volta che sono stato a ElBulli ho capito che c’era questa deviazione dalle regole francesi. Così abbiamo iniziato a peregrinare in Spagna, poi in Nord Europa, adesso andremo in Perù, e poi chissà. Io alla seppia ne ho fatte di tutte i colori: ecco, oggi ho portato la mia seppia blu». Diventato un grande classico, questo piatto, insieme ad altri, ripercorre le preparazioni più iconiche dello chef marchigiano. Così, se da Clandestino – Susci Bar (quest’anno il menu è dedicato a otto donne che hanno segnato la storia, da Frida Kahlo a Virginia Woolf, passando per Coco Chanel) arriva il bounty di seppia (seppie, cocco rapè, sale e pepe bianco), disobbedienza ormai codificata anche per assottigliare il confine tra il dolce e il salato (l’abbiamo visto già con René Frank), inedita è quella con Seppia, capasanta, lampone, ramen di maiale, porro, mirin e sake, umeboshi, uovo di quaglia marinato. Si tratta di uno dei piatti nuovi usciti dal Tunnel (laboratorio di ricerca seguito da un vero e proprio chimico e finanziato dalla stessa famiglia Cedroni) che nipponizza la lavorazione di questo pesce.
È al Sol Levante che sono stati dedicati tre interessanti interventi sull’uso del coltello, della pasta e della cucina kaiseki. Si parte dall’arte giapponese delle lame e dall’importanza del taglio come fosse una tecnica di cottura condivisa in tutta la sua bellezza dallo chef Hirotoshi Ogawa, direttore All Japan Sushi Association e ambassador di Goodwill, anche perché una delle particolarità della cucina giapponese è appagare la vista. Ad esempio, l’abbinamento dei colori è fondamentale: il giallo e il rosso fanno aumentare l’appetito, invece il nero inviata alla concentrazione. Tornando alla lama, con il coltello si cucina a tutti gli effetti e da alcune slide messe a confronto è palese quanto un coltello normale restituisca un taglio non lineare alla superficie della materia prima che non appare liscia. Questo non vale solo per il pesce ma anche per la verdura, anzi chi comincia a tagliare in Giappone sperimenta proprio con gli ortaggi e persino il cetriolo tagliato in un certo modo cambia gusto.
Il tema del taglio ha appassionato anche Rosalinda Lassandro che lavora nell’unico ristorante di vera cucina kaiseki in Italia che si trova sempre a Milano: Hazama. «Ci vuole tantissimo per imparare, dalla posizione del corpo, dalla distanza rispetto al tagliere, dall’inclinazione del coltello. Una delle differenze rispetto al taglio italiano classico è che il prodotto non deve essere appoggiato ma sospeso e la lama deve scorrere senza fare pressione», racconta l’assistente di cucina di origine pugliese che ha rubato con gli occhi quest’arte dal patron e chef Satoshi Hazama, colui che per il tre stelle Michelin Riccardo Monco sa tagliare il pesce meglio di chiunque abbia mai visto all’opera.
Ha studiato economia e vissuto poi a Londra ricoprendo ruoli da manager in grandi aziende Aya Yamamoto di Gastronomia Yamamoto che a Milano ha scelto di portare un ristorante giapponese che andasse oltre il sushi. Da ottobre 2023 la sua linea di cucina è affidata a uno chef proveniente da Tokyo, ex pugile dalle nocche delle mani consumate, Daisuke Seki. «Già nella cultura giapponese è difficile disobbedire – afferma Yamamoto – io sono stata una vera ribelle per la mia famiglia quando nel 2017 ho lasciato il posto fisso per aprire un’attività ristorativa». Solo da un ristorante giapponese non scontato come il suo ci si poteva aspettare allora un piatto di pasta: «Credo che saremo gli unici del nostro target in Italia ad averlo». In carta a partire da questa settimana, gli spaghetti mentaiko, sono un carboidrato di grano duro con uova di merluzzo messo sotto sale, peperoncino oppure dashi. «È l’ultimo piatto che ho mangiato con mia nonna quando sono andata a trovarla a Natale». Questa categoria si chiama wafū pasta ed è pasta di grano duro che si mangia con ingredienti giapponesi: «L’unica differenza che forse troverete sarà il cucchiaio al posto delle bacchette. Ci si può mettere miso, salsa di soia: oggi per noi è con il pesce. Il messaggio che volevamo comunicare è che gli spaghetti si mangiano anche in Giappone». E non serve neanche chiudere gli occhi per associarli a una più familiare spaghettata ajo, ojo e peperoncino.