C’è un luogo a Roma, anzi tre, dove prendere un afternoon tea, regalarsi un’esperienza immersiva in un due stelle Michelin o sorseggiare un cocktail con vista panoramica sulla città. È la trilogia di The First, marchio d’hôtellerie del gruppo Pavilions, che ha declinato la sua offerta ristorativa rispettivamente negli spazi di Dolce, Arte e Musica, gli hotel della collezione capitolina, rivolgendosi non solo agli ospiti “in casa” ma, soprattutto, a un pubblico esterno, magari proprio romano. Una tendenza che conferma quanto mangiare in albergo non sia più (e nella maggior parte dei casi) un affare da turisti, ma questo noi lo avevamo già anticipato un anno fa nel nostro numero di “Room Service”. Ad avvicinare al ristorante all’interno del cinque stelle in via del Vantaggio, caratterizzato dal suo focus artistico ripreso nell’insegna, aiuterà probabilmente sapere che la cucina di Acquolina è guidata da Daniele Lippi, classe 1990, il quale, dopo il suo ingresso nel 2019, ha shakerato per bene la linea gastronomica tanto da meritarsi il secondo macaron nel giro di tre anni.
Come? Innanzitutto concretizzando la proposta in due percorsi degustazione (no, niente scelta à la carte) da 7 e 9 portate. Al centro c’è il Mediterraneo che talvolta bagna le coste dell’Italia o della Grecia, altre approda in Turchia e sa spingersi fino in Marocco dove, ad esempio, ha recuperato una tradizione antica, quella dello smen, importata in quelle terre dalle prime colonie francesi che insegnarono ai local la preparazione del burro. Un mix di latte di pecora, timo e sale che in Nord Africa ogni famiglia sotterrava in anfora alla nascita della primogenita, nell’attesa di usarlo come condimento nel banchetto del suo matrimonio. Da Acquolina, a velocizzare il processo di fermentazione ci pensano delle muffe naturali e un melting pot che riporta nelle acque nostrane per l’aggiunta del garum, anche questo fatto in casa, con alici e acciughe. A scoperchiare direttamente al tavolo il vaso di terracotta in cui è contenuto il preparato è Benito Cascone, restaurant manager che, oltre a orchestrare il servizio in sala, tiene alto il ritmo tra una portata e l’altra con aneddoti simili a questo. Il suggerimento è naturalmente di spalmare il burro sulla pagnotta impastata con la farina più antica che c’è, quella di ghiande: «È così che in Sardegna sfornavano i primi pani – spiega il giovane chef –. Mi piace quel suo profumo di tannino che apporta un sapore contemporaneo al lievitato».
È stata la passione per la storia a ispirare anche il nome del menu più lungo, Anabasi Catabasi, che renderebbe appetibile l’omonima prosa dello storiografo greco Senofonte persino a uno studente del Liceo Classico. Mettendo da parte il concetto militare di “spedizione verso l’interno della costa” e “ritirata verso il mare”, Lippi ha decisamente cambiato la rotta di Acquolina che, contrariamente a quanto suggerisce il nome, non offre più solamente portate di pesce. «Non mi sento solo un cuoco di mare. Sono voluto uscire dal cliché ristorativo di albergo blasonato, suggerendo una visione che supera il classico schema proteina-vegetale-salsa, e mi sono anche avvicinato a metodi di cottura ancestrali». Parole che si materializzano in quello che è diventato uno dei suoi signature, ovvero la triglia, scottata al barbecue e adagiata su un fondo d’anatra insieme al cuore dello stesso pennuto e dei mandarini caramellati. Oltre alle proteine animali, il pesce incontra i latticini come nel gambero rosso e latte di pecora fermentato, oppure viene accostato al vegetale facendo brillare le eliche di borraggine su un fondo al nero di seppia che diventa anche un salume di mare con il chorizo grazie a un’altra sensibilità che lo chef ha sviluppato, quella per le frollature di pesce.
La consapevolezza che ha acquisito nei passaggi tra le diverse cucine di Piazza Duomo, Pavillon Ledoyen e Lasarte, a cui si aggiunge la maturità conquistata nei diversi anni trascorsi al fianco della famiglia Troiani, hanno permesso allo chef di Acquolina di portare con sé due piatti dalle precedenti esperienze, diventati una sorta di sua cifra stilistica. Se il topinambur continua a sorprendere per il perfetto camouflage che lo fa sembrare a prima vista, ma anche all’assaggio, un carciofo, leggermente fritto alla giudia e condito con menta e prezzemolo come vorrebbe quello alla romana, è con il fungo – piatto che al Convivio si chiamava orecchie di mare – che dimostra la propria evoluzione. «Prima servivo i cardoncelli all’interno delle conchiglie con burro, escargot all’aglio, scalogno e prezzemolo. Oggi l’evoluzione più interessante è quel fondo di lumache di mare che dona un’interessante nota umami, quasi terrosa». La terra diventa invece “arida” nel dessert-denuncia che punta i riflettori sul cambiamento climatico – un argomento purtroppo attualissimo – e sulla siccità: una meringa di colore scuro, appunto, che, attraverso la spigolosità delle sue “crepe”, funge da amplificatore a note di liquirizia, radici, vaniglia, cioccolato bianco, aglio nero e aceto.
Quella di Daniele Lippi è una cucina colta, ricercata e libera che fa uscire con la pancia e la testa piene. Per una serata più casual, l’alternativa è salire da AcquaRoof Terrazza Molinari (affacciatevi anche solo per scoprire il recente restyling dell’arredo): qui l’unico sforzo da fare è scegliere con quale crudo di pesce abbinare il proprio cocktail, mentre avrete la città eterna ai vostri piedi.