Alchemist: il “Monaco” riscrive la sua formula

A Copenhagen, Rasmus Munk riapre il suo concept di ristorazione olistica. Da 40 metri quadri a un imponente spazio multifunzionale, a soli cinque minuti dal nuovo Noma

Questione di prospettive. Promettenti e protratte, tra prospetti prodigiosi e proiezione di proclami. Facile allitterare con un “pro” rutilante a ribadire, rintuzzando le aspettative, progetto e proposta di Alchemist. Quello nuovo sta per aprire a poco più di un anno dalla chiusura dello spazio in cui s’è imposto sulla scena della capitale del Regno di Danimarca nell’estate 2015. Era una capsula minuscola – quindici coperti e il conto dei metri quadri che non superava i quaranta – a Østerbro, parterre di opulenza signorile a basso profilo. Ora si cambia: il micro salta parecchi ordini di grandezza e si fa XXL+ a Refshaleøen, il distretto hip – non così hipster, per ora – dell’isola di Amager. È l’arena della new new Nordic cuisine: Amass e CPH Food sono a qualche decina di metri, per il Noma bastano cinque minuti a piedi. La costellazione di rimandi combina tuttavia orbite oltre quest’ex arsenale mutato in enclave foodie. La Sirenetta si concede ai selfie sull’altra sponda dei docks, l’Illutron è ormeggiato qui dietro, dove le saune flottanti di CopenHot salpano. Meglio arrivarci lungo il dyssen, terrapieno acquitrinoso di Christiania dall’aura ineffabile, fino alle due mega-C rosse di Copenhagen Contemporary. 

Lo stargate che immette nel nuovo Alchemist è lì accanto: cerniera rettangolare alta quattro metri, sciorina gli sbalzi convessi e i fregi del portale di Maria Rubinke in un’opera “che combina tutti i simboli religiosi della storia, l’accesso a un Mondo Nuovo”. L’artista danese sublima così il proprio estro dalla porcellana al bronzo, la materia dei due atout più radicati dell’oleografia danese: fine dining domestico, guglie ossidate a cardare gli skyline. E la mette al servizio della scommessa ambiziosa di Rasmus Munk. Lo chef ventottenne ha deciso di affidarsi a Mike Duncalf, la design agency londinese ha firmato altri progetti in città – Steel House, diversi interventi all’aeroporto (Aamanns, Smørrebrød Restaurant, tra gli altri), Le Sommelier e Gorm’s – dimostrando di trovarsi a proprio agio nel disegnare ambienti in contesti aperti e complessi. Ma qui è diverso: Alchemist è una cittadella-astronave in un enorme guscio di cemento. «Non abbiamo lavorato in maniera codificata e mainstream», confida e confessa durante il nostro walk & talk al cantiere. «Partire da un’intuizione per trasformarla in idee da tradurre in progetti architettonici è la modalità più semplice, si fa per dire. Non garantisce però la vera paternità di un posto come questo. La cosa che hai in mente diventa meno tua quando a crearla è uno studio che deve appropriarsene per interpretarla. Ho preferito uno scambio continuo di spunti e appunti. Una genesi inedita, artigianale ed industriale». 

Balziamo al cuore della struttura, la sala principale: Accoglierà gli ospiti – quaranta per ogni dining journey, un unico seating ogni sera – sotto a una volta di quindici metri su cui prenderanno vita animazioni a rotazione. Una coreografia di proiezioni scandita col “giusto equilibrio” tra assoli cromatici e il fluire omogeneo che accompagna gradualmente la sequenza di proposte servite. I movimenti della brigata (due dozzine all’opera) si intuiranno dietro la vetrata rivestita da una pellicola ad hoc: l’effetto sarà, garantisce lo chef, quello della Multiple Shadow House di Olafur Eliasson. Allo stordimento guidato pensano le due sensory room: spazi in cui la performance è coinvolgente e live, e non relegata a uno sfondo 2D, per quanto immersivo. Torniamo all’ingresso: l’accoglienza verrà guarnita da uso generoso di decibel nel vestibolo e snack nella lounge con vista sulla test-kitchen. Si salirà a piedi bordando la cantina in legno e metallo su tre livelli – «l’ho disegnata io, a costruirla mi ha dato una mano mio zio», chiosa Rasmus – fino alla sala principale. Da lì si si entra nella prima sensory room per attraversare poi la cucina e incontrare le maestranze ai fornelli (ora finalmente riconoscibili). Con una elevator experience (sic) si sale alla seconda sensory room, con vista sulla cupola dall’alto e somministrazione dei dessert. Un ultimo giro in ascensore accompagna direttamente all’uscita. Saranno passate nel frattempo circa quattro ore. Quando Anton Ego, in Ratatouille, ordina – letteralmente, sublimando sfumature di senso in un trionfo dei sensi – di essere stupito con «some fresh, clear, well seasoned perspective» mette in crisi il cameriere. Alla visione di Rasmus “the Monk” la perspektiv non manca. Pervicace, persistente, percettiva e perspicace.