Andreas Kofler presidente Consorzio Vini Alto Adige

Alto Adige futuro prossimo

Colti, all'avanguardia, preparati: sono i kellermeister e vignaioli under 40 che stanno scrivendo una nuova pagina dell’enologia locale. Nel rispetto del passato ma con la voglia di sperimentare.

Che l’Alto Adige sia una regione diversa, con regole e dinamiche del tutto peculiari rispetto al resto della penisola, lo si capisce da tanti fattori e un milione di dettagli. Tra questi, oggi, la straordinaria percentuale di giovani che ricoprono ruoli chiave in altrettante aziende di riferimento, a cominciare da settori non esattamente inclini al cambiamento come quelli dell’agricoltura e del vino. Se negli ultimi trent’anni questa terra ha attraversato una trasformazione epocale, guidata da vignaioli e tecnici visionari che sono riusciti nell’impresa di cambiare il modello produttivo in profondità, traghettandolo fuori dalle secche del passato, spetta oggi alle nuove generazioni il compito di alzare ancora di più l’asticella, consegnando definitivamente l’Alto Adige all’olimpo del vino internazionale. Un’operazione su larga scala che fa pensare a una vera e propria pianificazione, quantitativamente e qualitativamente rilevante, finalizzata alla conquista del futuro attraverso le capacita e le competenze di giovani dai curricula scintillanti, con percorsi formativi ed esperienze sul campo di assoluto livello nonostante l’anagrafe. Sono loro, almeno così pare, il maggior investimento delle realtà vinicole altoatesine in questo momento. Più delle vigne, che pure hanno raggiunto prezzi da capogiro o delle cantine, spesso rinnovate, bellissime e all’avanguardia. I padri hanno capito che, sfruttata la congiuntura favorevole con intuito, volontà e senso pratico, c’era bisogno di un salto di qualità che partisse anzitutto dalle competenze e da una visione ampia. Spesso la soluzione è arrivata dai figli. Un fatto non scontato, se consideriamo la genetica idiosincrasia del capitalismo familiare italiano verso i passaggi generazionali, che può apparire obbligato nelle aziende “private” ma non certo in strutture complesse e gerarchizzate come le grandi cantine sociali. Qui vale la pena fare un piccolo inciso: le cooperative del vino appaiono un po’ ovunque come strutture pesanti, quasi mai capaci di stare al passo con i tempi, fortemente politicizzate e difficilmente in grado di perseguire la migliore qualità possibile. In Alto Adige il paradigma è totalmente diverso e capace di esprimere dei valori inimmaginabili in altre zone d’Italia, se non del mondo. Alla base ci sono lungimiranza, visione, un’organizzazione meritocratica che premia i valori e porta al comando professionisti di alto profilo, spesso under 40. Pensiamo al kellermeister, letteralmente l’enologo aziendale ma nella realtà una figura molto più importante e centrale, sia nelle dinamiche delle singole realtà che del tessuto socioeconomico della zona.

Ed estremamente preparata, come nel caso di Andrea Moser, classe 1982, a capo della produzione della Cantina di Caldaro dal 2014. Sono di origine trentina – esordisce – e dopo essere entrato nel vino per passione ho fatto il mio percorso di studi e le necessarie esperienze, fino a quella decisiva con Franz Haas e all’ingresso in una grande realtà come Kaltern. Posso dire che in Alto Adige ci sono le condizioni per fare grandi cose. Credo che i giovani debbano rispettare il passato ma allo stesso tempo non guardare troppo a quello che si faceva una volta, portando nuove tecniche e idee. A livello stilistico, anni fa si guardava molto alla Francia, tenendo anche conto delle varietà utilizzate, mentre oggi siamo alla ricerca di vini sempre più personali, con meno note di legno e l’uso di contenitori “alternativi”, dalle botti di ceramica al cemento. Bisogna alzare il livello delle etichette di punta ma non sono d’accordo con chi dice che qui si fanno vini noiosi. Semmai c’è un alto livello tecnico e tecnologico, fatto raro e sicuramente positivo. E poi gli esperimenti non mancano, come dimostrano le varie declinazioni del Project XXX (eXplore – eXperiment – eXclusive) di cui Moser è molto orgoglioso: dalle vinificazioni a grappolo intero (con i raspi) alle macerazioni sulle bucce, passando per i cosiddetti vitigni resistenti (varietà di vite che manifestano una resistenza elevata alle malattie fungine, dunque meno bisognose di trattamenti fitosanitari). Da una cantina sociale piuttosto grande a una più piccola ma al centro di grandi rinnovamenti come Cortaccia, il passo può essere breve. Intanto i kellermeister hanno la stessa età, sono di origini trentine e si sono incrociati sia tra i banchi di scuola che in alcune esperienze lavorative. Kurtatsch, in lingua tedesca, vede infatti la direzione enologica passare da Othmar Dona a Erwin Carli, affiancato da un team molto giovane che comprende Andreas Kofler, direttore dell’azienda nonché presidente del Consorzio Vini Alto Adige. Con gli irrinunciabili sandali e gli occhiali stilosi, incarna alla perfezione l’informale precisione e la giocosa serietà del nuovo corso enologico di queste parti. La cantina ha una facciata ispirata alle pareti rocciose del posto, ben visibili dalla splendida sala degustazione panoramica, e si sviluppa in verticale, a spasso tra le diverse lavorazioni e le epoche che ne hanno segnato la storia.

Passaggio generazionale in vista anche a San Michele Appiano, cooperativa di riferimento in cui brilla la stella del kellermeister Hans Terzer, nell’olimpo dei più grandi di sempre. Figura celebre e celebrata, appare ancora saldamente al comando ma sta comunque lavorando alla sua successione. Se le cose andranno nel verso giusto, tra qualche anno al suo posto ci sarà il giovane Jakob Gasser (27 anni), nell’ingranaggio produttivo della cantina dal 2017 e in fase di decollo. Un cambiamento “dolce”, perché qui tutto funziona molto bene – conferma Terzer – e sarebbe stupido cambiare tanto per farlo. Anzi, la decisione di puntare su un giovane da allevare in casa è stata presa per evitare stravolgimenti o eccessi personalistici. La vera novità sarà semmai nelle mansioni, sempre più puntuali. Io ho ricoperto diversi ruoli: tecnici, commerciali e di marketing, ma oggi il mondo è cambiato e serve molta più specializzazione. Sembra pensarla così anche il giovane direttore generale della Cantina Valle Isarco Armin Gratl, cooperativa della zona vitivinicola più settentrionale d’Italia. Una valle piccola (440 ettari in tutto, con vigne che arrivano fino a 1.000 metri), assai originale e capace di varietà peculiari come i bianchi Kerner e Veltliner. È importante che ci sia una chiara divisione dei compiti e obiettivi ben precisi – spiega Gratl con sguardo sicuro –. Questo, nel nostro caso, significa ricercare uno stile affilato che sia rappresentativo del terroir di montagna in cui ci troviamo, al fine di valorizzare uve identitarie ma ancora poco note.

Conosciuta e rilevante, almeno in passato, ma sempre meno coltivata e al centro di un rinnovato disegno contemporaneo, con tutte le declinazioni territoriali e stilistiche del caso, è invece la Schiava. Un’uva a bacca nera capace di vini plastici, ingiustamente considerati modesti e poco longevi, un tempo, che oggi appare quanto mai attuale. Tra le patrie elettive del vitigno, le colline da cui deriva il Santa Maddalena: un vino in genere più corposo, anche per via della presenza di altre varietà come il Lagrein. Qui una schiera di cantine sta vivendo una seconda giovinezza, anche anagrafica, grazie alle nuove leve delle famiglie proprietarie. Tra queste, brillano i figli del celebre produttore Josephus Mayr del Maso Unterganzner, Josef e Katarina, in rappresentanza dell’undicesima generazione. Il Santa Maddalena Classico Heilmann, per dire, è frutto di fermentazioni spontanee e una piccola quota di vinificazione a grappolo intero. Studi a Geisenheim (sede di una storica scuola di enologia tedesca) e qualche esperienza alle spalle, tra Piemonte e Toscana, Josef è infatti nella classica fase “esplorativa” in cui si cerca di migliorare, volendo portare in dote qualcosa di proprio e di nuovo senza rischiare di compromettere il patrimonio lasciato dai genitori. Altro Santa Maddalena da tenere in considerazione e quello di Martin Ramoser di Fliederhof, giovanissimo enologo che firma i vini della sua famiglia. L’azienda ha appena 3 ettari lavorati con metodi biodinamici, rara cura, sensibilità e ottimi risultati.

Da non confondere con un altro Ramoser, Florian, della cantina Untermoserhof. Il suo Hub è un Santa Maddalena molto fine, realizzato con il 95% di Schiava proveniente da vecchie viti dell’omonimo cru, fermentata in grandi botti di rovere e un 10% di grappolo intero. La tenuta settecentesca Griesbauerhof della famiglia Mumelter ha un’aura estremamente tradizionale ma capace di accogliere il corso delle nuove generazioni. Basti pensare che Georg l’ha presa in mano a soli 20 anni, con la moglie Margareth, e che ora al comando ci sono i figli Lukas, dedito ai vini dal 2018, e Michael, che gestisce l’osteria Freiraum Mumi. Il loro Santa Maddalena Classico Isarcus 2020 ha intensità e sapore senza orpelli, texture elegante e richiami di lampone. Florian Gojer, con la moglie Evi, si occupa invece dell’azienda Glogglhof. Tornato dagli studi in Germania, ha iniziato a gestire le vigne di proprietà e la vinificazione, raggiungendo in breve tempo livelli assoluti.

Il caso del Santa Maddalena Classico Vigna Rondell e emblematico: già il padre vinificava separatamente le uve di questa parcella ma è stato Florian a dargli impulso, trattandola in maniera quasi “borgognona”. Il quadro che ne esce è, nel complesso, quello di un gruppo di vignaioli coesi che sta scrivendo una pagina brillante della storia della denominazione, ben raccontata dalla giovanissima Veronika Pfeifer, dello storico maso Pfannenstielhof. Tutto è iniziato con un gruppo WhatsApp – racconta – e con la voglia di fare squadra, portando in campo le nostre idee e il nostro entusiasmo. La Schiava ha una lunga storia ma anche tanti pregiudizi, spetta a noi il compito di correggere il tiro e fare qualcosa di nuovo. Ad esempio, non è vero che il Santa Maddalena non può invecchiare bene, anzi!. Il suo Der Pfannenstielef 2016, tutto radici, fiori ed erbe di montagna, sembra confermare la teoria.

Santa Maddalena

Santa Maddalena è un vino storico, tanto che il Consorzio di tutela nasce già nel 1923 e il prossimo anno festeggerà i 100 anni. La varietà di riferimento è la Schiava, un tempo simbolo dell’Alto Adige, proveniente dalle colline assolate a nord-est di Bolzano. Viene definito “classico” se le uve arrivano dalle aree di Santa Maddalena, Santa Giustina, San Pietro, Rencio e Coste. I terreni variano dai detriti morenici e argillosi di alta quota ai suoli ghiaiosi, fluviali e sabbiosi di collina, passando per quelli argillo-sabbiosi di Rencio e ai sedimenti alluvionali lungo il fiume Isarco. Dai 200 ettari complessivi di tutto l’areale, vengono prodotte ogni anno circa 2 milioni di bottiglie. Storicamente le tipologie erano tre: Schiava grossa, piccola e grigia, cui il disciplinare permette di aggiungere altre uve, quasi sempre Lagrein, per un massimo del 15%.

Ci sono giovani ovunque tra le cantine dell’Alto Adige. In quella di Elena Walch, le figlie Karoline e Julia sono ormai in prima linea, con le loro idee e le sensibilità del caso. Anche lo stile dei vini è in evoluzione e subisce sempre meno l’influenza della barrique. A Kuenhof, brillante realtà della Valle Isarco, Peter Pliger è più che mai affiancato dal figlio Simon: È un grande vantaggio respirare l’esperienza dei genitori ma il plus della nostra generazione e che abbiamo potuto studiare. Cosa sta cambiando? Mio padre faceva vini molto secchi ma il clima è mutato e le vendemmie sono anticipate. Per controllare l’alcol e avere buone acidità naturali bisogna lasciare qualche grammo di zucchero in più e magari piantare vigne più in alto. Il mio sogno? Abbandonare rame e zolfo e lavorare solo con le erbe. Anche Ines Giovanett di Castelfeder è alle prese con il passaggio delle consegne: La fortuna è che abbiamo genitori giovani, anche mentalmente. Questo vuol dire che dobbiamo per forza lavorare insieme ma anche che e facile capirsi. E poi non possiamo lamentarci: qui le cose funzionano e negli ultimi anni anche la cucina e il turismo sono cresciuti e vanno a braccetto col vino. Per Daniel Pfitscher, rampollo dell’omonima cantina, sono tante le sfide che ci attendono, da quelle legate alla sostenibilità al miglioramento del vertice della piramide produttiva. L’Alto Adige ha una qualità media impressionante, dunque va ricercata ancora di più la personalità e l’identità territoriale delle selezioni più prestigiose. Di sostenibilità si parla ovunque ma qui ci sono diversi progetti concreti e qualche sogno. Tra questi, quello del vuoto a rendere che in soldoni significherebbe non buttare le bottiglie ma farsele restituire, lavarle e riutilizzarle; un po’ come fanno i birrifici in Germania. Riguardo la territorialità dei prodotti, e in cantiere una grande riforma legata alle UGA (Unita Geografiche Aggiuntive), in maniera da ancorare sempre di più i vini ai terroir di provenienza delle uve, dice il direttore del Consorzio Eduard Bernhart. Giovane anche lui, nemmeno a dirlo.

L’Alto Adige in cifre

Anche se i numeri non raccontano le sfumature e le dinamiche più intime del vino altoatesino, qualche dato serve a inquadrare il momento e a cristallizzare lo stato dell’arte della produzione. I 5.600 ettari di vigna della regione (1% del parco italiano) sono coltivati da ben 5mila viticoltori, con 274 cantine complessive e 10mila impiegati nel settore vitivinicolo. L’8% della superficie è biologica mentre le altitudini passano agevolmente dai 200 ai 1.000 metri. Le bottiglie prodotte ogni anno toccano i 40 milioni, derivanti da 20 varietà diverse. Il 64% della produzione è oggi bianchista, cosa che ribalta la matrice storica della regione. Il 98% del vino prodotto – dato piuttosto sorprendente – è Doc.

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Foto di copertina: Andreas Kofler presidente Consorzio Vini Alto Adige

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