Andrea Moser

Andrea Moser: «Il mio vino senza rete»

L'enologo trentino, ex kellermeister di Cantina Kaltern, racconta la nascita di AMProject, l'opera prima Flow e le altre consulenze, sotto il segno della sperimentazione, della sostenibilità e della libera espressione.

Si chiama Flow – come un flusso, qualcosa che scorre, in costante evoluzione – il nuovo vino firmato da Andrea Moser, il talentuoso ex kellermeister di Cantina Kaltern che qualche mese fa aveva annunciato l’addio alla più grande cooperativa vitivinicola dell’Alto Adige, dove era approdato nel 2014 dopo importanti esperienze (tra cui quella con Franz Haas), per “misurarsi con altre sfide”. L’enologo trentino, classe 1982, in questi anni si è sempre distinto per la sua visione cristallina, in equilibrio tra sperimentazione e pragmatismo, e la piccola grande rivoluzione compiuta intorno al lago di Caldaro, restituendo alla Schiava (e non solo) un ruolo più consono alle sue potenzialità: anche per queste ragioni è stato inserito nella lista 40 under 40 del vino italiano di Fortune Italia, curata dalla nostra redazione. 

Ora Andrea “il pirata” Moser ci racconta in anteprima il suo futuro prossimo e i progetti inediti, a cominciare proprio da questa cuvée a prevalenza Trebbiano e Vermentino che nasce in Toscana con l’annata 2022, da una piccola parcella di vigne di quasi 80 anni. Disponibile da ottobre in sole 726 bottiglie numerate e firmate, con un’etichetta realizzata dall’artista Serena Barbieri, Flow è il primo di una serie di temporary wine, a mo’ dei temporary restaurant degli chef, e segna una nuova direzione.

«Dopo quasi vent’anni di lavoro per altri – svela il winemaker – ho sentito forte il bisogno di trovare una mia strada personale, nella quale riversare i miei studi e la mia esperienza, ma anche tentare di andare oltre le rotte consuete, e provare a indirizzare la mia visione enologica verso vini che abbiano una nuova identità, e che mi permettano di esprimermi liberamente, senza pregiudizi e senza limiti. L’uscita da Caldaro è dipesa in larga parte da questa volontà di mettermi alla prova su terreni inesplorati, cosa impossibile da fare in una cantina così tradizionale e legata a logiche commerciali stringenti. Una lontananza di obiettivi così ampia mi ha fatto capire quanto avessi bisogno di respirare aria nuova, e guardare a un futuro con meno vincoli e molto più libero, creativo e contemporaneo».

Cosa intravedi dunque in questo futuro?

«Insieme a mio fratello Luca, anche lui enologo, lavorerò al nuovo AMProject. Sto concretizzando tutte le mie consulenze in diverse aziende, scegliendo produzioni in linea con il mio pensiero e con la direzione, sostenibile e meno impattante sull’ambiente, che spero segua tutto il comparto vitivinicolo: è una filosofia che mi ha sempre caratterizzato anche quando lavoravo a Caldaro. Non mi interessa solo fare vini buoni ma anche rispettare o recuperare un territorio. Lavoreremo di volta in volta nei luoghi che sceglieremo o che ci hanno scelti per produrre ogni anno vini unici, non convenzionali e fortemente territoriali. La vinificazione avverrà in Alto Adige, ma non solo, con le attrezzature migliori per l’obiettivo che ci siamo prefissati». 

Si tratterà sempre di temporary wine?

«Cambieremo la regione, il vitigno e anche la vinificazione per produrre vini unici, irripetibili, in edizione limitata e da acquistare solo in preordine. Li spediremo solo nei mesi freddi per preservarne al meglio le caratteristiche. Alcuni dei vini saranno ogni anno un’evoluzione dell’annata precedente, sulle stesse vigne selezionate, in modo da dare continuità alla ricerca e al lavoro svolto. Sono vini destinati a un target di appassionati e in parte riservati a una serie di ristoranti che li avranno in abbinamento a menu e piatti signature».

Come nasce Flow, il primo temporary wine?

«Collaboravo già con Paola De Blasi che ad Anghiari, nell’Aretino, ha recuperato 4 ettari di vigne di quasi 80 anni, che furono piantate dal nonno su terreni di argilla rossa a circa 450 metri sul livello del mare, abbandonate da 40 anni. Con la mia consulenza enologica è nato il suo rosso Beba, un blend a prevalenza Sangiovese con Canaiolo nero, Colorino e Ciliegiolo, prodotto in sole 3mila bottiglie. Un’altra parte di vigneto è coltivata a uve bianche. Dopo 3 anni di tentativi di vinificazioni sono riuscito ad avere una quantità di alto livello, vinificato a parte, e invece di berlo con gli amici ho deciso di imbottigliarlo e farne la mia opera prima. Sono vigneti che in pratica non hanno mai visto chimica, nel 2022 ho dovuto fare solo due trattamenti di rame e zolfo, anche grazie alla particolare ventilazione dei pendii che riduce il rischio di patologie della vite. Il bello di una vigna vecchia è che produce poco ma in equilibrio. A breve continuerò a disboscare e recuperare un’altra parte di vigneto».

Ci racconti meglio questa opera prima?

«È un po’ il mio vino senza rete, in cui sono andato a briglia sciolta e ho messo da parte il mio animo più tecnico ma in cui ho anche messo a frutto l’esperienza creativa di XXX (il progetto sperimentale di Cantina Kaltern firmato da Moser, ndr). Si tratta di un blend di Trebbiano e Vermentino al 70%, Malvasia e Canaiolo bianco al 25% più un saldo di altre varietà non ancora identificate. La vinificazione, vista la piccola quantità prodotta, è avvenuta in botti di ceramica Clayver da 2 ettolitri, con una macerazione prefermentativa dell’uva, diraspata e pigiata, di circa 5 giorni. Il mosto è stato poi travasato per la fermentazione nuovamente in Clayver e in due caratelli, uno nuovo e uno usato, di Carmignani, storico produttore da quattro generazioni di botti tradizionali toscane usate per il Vin Santo. Sono stati fatti pochissimi interventi sul vino: voglio che sia autentica espressione di questa vigna recuperata e salvata dal bosco. Non è nemmeno filtrato, dunque è più vivo ma si espone anche a più rischi. Sicuramente non è un vino accomodante ma divisivo. Ha caratteristiche aromatiche molto nette, irruente e intriganti, di pietra focaia e frutta matura. Ha un côté salino, in bocca è esuberante, con buona acidità e polpa. Le prime persone che l’hanno assaggiato non hanno riconosciuto la mia parte più inquadrata e precisa in questo vino (ride, ndr)».

Quello di Anghiari non è l’unico progetto a cui ti stai dedicando.

«Esatto. Dallo scorso marzo sto trattando con un produttore biologico a Mazzon di Caldaro per poter acquistare piccole quantità di pinot nero e pinot bianco, coltivati in biodinamica, con cui produrre un migliaio di bottiglie per varietà. Voglio che siano delle produzioni bespoke, sartoriali. In Veneto seguo Monte Cimo, la piccola azienda di 10 ettari di Francesco Chiamenti alle pendici del Monte Baldo, dove si coltivano solo PIWI (vitigni ad elevata resistenza alle malattie fungine, ndr), e in Sardegna l’azienda Etzo del Mandrolisai, nel cuore rurale dell’isola. E poi, insieme all’amico e socio, anche lui enologo, Giulio De Vescovi dell’Azienda Agricola de Vescovi Ulzbach a Mezzocorona, stiamo producendo due spumanti Metodo Classico di montagna, il K500, 100% Pinot nero coltivato in Val di Non, e il K Blanc, uno Chardonnay in purezza. Oggi produciamo circa 13mila bottiglie, di cui solo 3mila del K500, seguendo un filone diverso da quello ideale trentino, tant’è che non siamo nel Trentodoc e stiamo ancora valutando se entrare. Sono tutti progetti accomunati da un pensiero alternativo e da un modo diverso di vedere le cose». 

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